Blast Presenta:
Primo capitolo di 28 capitoli, un intero libro disponibile solo su Blast!
Rivivi nella nebbia in cui la città sparisce. Senti la pelle tirare, la stranezza del limite ti rende inquieto. Giri gli occhi nella confusione.
Hai nel cuore una mano che pesa le cose. Intorno altre mani. Tra le gambe sorreggi il corpo che correndo sbatte, sordo sulle cosce come un colpo inesploso. Sei pelle, sei porno.
Tratteggi le strade con la mania del rimasto. Pensi alla fine del mondo, quella ideale, improvvisa di ognuno. Altre mani ti appartengono, non queste che ti pesano indosso.
Bazzichi intenzionalmente i margini. Riguardi nelle cose comuni, nelle strade, negli angoli, nella gramigna che secca e infesta. Cerchi una sintonia, o soltanto un poco di ombra.
Sai che la mente è ostaggio del corpo, e il corpo è appeso nel sole.
Sai che il sonno è un dono.
Sei senza sonno, non potrai più dormire.
Brancoli nel sole per sopportare la veglia. La para del giorno ti offusca la vista. Distorce le cose, che sembrano rinascere mentre tu le aspettavi già sveglio.
Sei figlio del tuo corpo. Sei ammesso. Sei sveglio. Il tuo corpo è una foglia che cade e ricade; è un numero che separa le volte. Porti tra le gambe il segno nudo che non ti scagiona: ti pensavi innocente.
E invece la colpa è anche tua.
Hai saputo della cometa. Una donna te l’ha annunciato cantando dalla roccia di sale rosa che le appartiene, la signora del Mediterraneo che vive nella grotta lungo lo scolo e sorteggia le carte. Sorella di se stessa, la Regina di paglia che brucia tra le stagioni. Essa è rapita ogni anno dagli uomini incappucciati, i servi di TEOTWAWKI.
La fanno bruciare nei campi di fronte alla folla.
Scrivono sui muri il suo nome per propiziarlo.
Non riesci a crederci.
Immagini le opere umane frantumate nello spazio come colpi d’artiglieria.
La fine del mondo si avvicina. Ti suona strano.
Il collasso, l’estinzione, l’urlo di TEOTWAWKI.
Ti dicono che è vero.
Dici va bene.
Tu ora vorresti solo dormire, non sentire più lo scalpiccio dei profughi oltremondo che in lunghe colonne svuotano la città, invocando il nome di una divinità atomica che ti ha già tolto tutto.
Vorresti solo chiudere gli occhi e dormire.
Passi. Risali le insegne che intrecci.
Celle intrecciate dentro celle intrecciate. Di te rimane il corpo, intrecciato, nudo dalla vita in giù. Corri, psicodrammatico, autoanalitico, con quel coso che ti sbatte tra le gambe. Hai rubato un’ora di sonno in un giorno di festa, ora TEOTWAWKI te ne priva per sempre e ti tiene prigioniero in un frattale. Il privilegio del sonno era di assomigliare alla morte, ed essere reversibile.
Ma la morte è ora una veglia cosciente, una veglia imperturbabile, inesauribile.
Corri quanto vuoi, non crollerai mai a terra esausto.
La stanchezza è un privilegio dei vivi.
Una voce ti mostrava una rottura nel muro. Eri curioso. Hai spalancato gli occhi vedendoci dentro un ragazzo impiccato. Lo conoscevi.
Pendeva come un frutto lungo e strano. Come un ramo spezzato. Il mondo è dei vivi, ti ha detto la voce. Il tempo è dei vivi. Chi è morto non può che aspettare, ti ha detto afferrandoti i capelli, tirandoti a sé.
Non aveva volto. Era solo una mano con tanto di unghie, fredda, che ti ha lasciato cadere prima che tu capissi. Era la mano dei quel ragazzo.
Sta arrivando.
Ti ripeteva un vecchio avvolto in una coperta termica, fermandosi tra gli altri, mostrandoti la data sul telefono.
Nevica nero in Siberia, ti ha detto.
Gli annegavano gli occhi in una misteriosa luce pallida. La barba gli tremava sul mento. È il segno. La furia di TEOTWAWKI
scivola sulle squame del mare fino a noi. Le foglie tremano nel vento mentre ci disperdiamo. Ma non c’è scampo, le sue mani stringono i cieli, i suoi occhi divorano i mondi. Ha voluto donarti il corallo che portava al collo, prima di scomparire nel flusso.
Sei ritroso in questo mondo che in sé non assomiglia a niente.
Sei in rotta nel passaggio delle cose che velocemente passano.
Ora sulla maglietta consumata ti pende il segno di un trascorso, non tuo, ma da cui impari.
Devi fare in fretta.
Nel marsupio conservi le poche cose che ti sono rimaste. Le poche cose che ti bastano per essere quel tanto più accelerato di chiunque, e comunque durare.
Le scarpe le ritrovi in strada, sporche di sabbia, abbandonate da te l’altro giorno o da qualcun altro, forse già morto di sole in un fosso. Le indossi, ora sono parte di te, della tua storia che rigira e precipita.
Ti guardi le mani.
Nudo dalla vita in giù, torni smandibolando al tuo riparo.