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Sfogo.
Lettere sputate sfregi alla tranquilla benevolenza di uno monitor bianco. Cosa c’era da aggiungere poi?… ahnediuwgnu7tfc2b t1c! L’accanimento è terapeutico è la cura la manna l’ultima sigaretta. Zeno deve morire.
Ma non è il suicidio quello che si cerca. Piuttosto una mano che percuota che afferri il completo scuro e lo scaraventi giù dal settimo piano insieme al suo proprietario se non sono la stessa cosa. Quello che si cerca senza saperlo non è altro che la sensazione pura di galleggiare sull’asfalto esangue. Una deriva rovinosa nei canali di scolo risucchiati dal cesso. C’è quella piccola ma costante considerazione sulla desiderabilità di annegare nei servizi igienici.
E’ tutto irragionevole senza dubbio. Nonostante si provi ad accettare con bonario accondiscendimento ciò che sbatte nelle reti fognarie sottocutanee. Uno sciabordio lamentoso che nella quiete tambureggiante del palazzo fa montare nervosismi arzigogolati labirinti scavati avvinghiati attorno a vorticanti scale a chiocciola. C’è bisogno d’aria. E di fissarsi su ciò che non ha bisogno di essere compreso. Sguaiati cappotti svolazzanti, un deserto di fronti corrucciate, intrecci di borsette e suole scaraventate. Un braccio si solleva a pugno piegandosi mentre una mano sbatte nella piega. Risate scagliate giù dal settimo piano, che come scuri si abbattono sui colli levigati di innocenti, inconsapevoli sciocchi. All’improvviso però, in quella sospensione d’aria di un secondo, un grido nasce e muore contemporaneamente. Una scossa simultanea, un blitzkrieg di tuono lascia la deriva di un eco. Si perlustra l’appartamento con occhio attento ma non c’è niente. Se non lo snervante, mortuario ticchettio di un orologio. Non si riesce a pensare. Quel suono diventa fisso e sempre più rumoreggiante, le vibrazioni sonore si ingrossano strabordando come l’impeto di una cavalleria che furiosa si abbatte sul malcapitato appiedato. Dannazione. Gli orologiai meriterebbero l’esecuzione capitale, dal primo all’ultimo. In un attimo ci si scaraventa sui tasti del monitor, ma il moto della centrifuga non è abbastanza intenso per vincere l’incredibile pura arrendevolezza di quel bianco pixelato.
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Le dita sono come arti morti, proiezioni digitali dell’apparato tecnico-industriale collegate tramite vene al centro di raccolta dati. Un moto di disgusto rigetta indietro i polpastrelli. Ci si alza ancora una volta solo per lasciarsi planare sul divano. Era tutto terribilmente snervante. Le riunioni in redazione, le call, i meeting, le presentazioni di qualche libro. Eppure tutto era svanito improvvisamente, risucchiato in un attimo lontano, sul fondo scuro di una pianura indefinita. C’era quella terrificante sensazione di essere stati appena partoriti ma con la memoria di un altro uomo. Gettati nel bel mezzo di un appartamento deserto. E guardando indietro altro non si trovava se non la compiacenza, il solletico godurioso di una promettente carriera intelletualisticheggiante. Latte che era ormai inutile succhiare, se mai lo fosse stato. Per quanto ci si sfuriasse, si tuonasse, si innalzassero gridi alla volta plumbea del firmamento quello che rimaneva galleggiante dopo il reflusso era la consapevolezza sottile di essere piacevolmente soli. Piacevolmente attenti davanti alla fine, una voce eco di se stessa nel deserto.
Un conato e subito il tentativo di riacquistare il terreno sfuggente. Si era infatti nel pieno dell’attività, dopo anni di faticoso anonimato, nell’impetuosa salita che precede la vetta, l’obbiettivo vero… qual’era? La domanda echeggia tra le pareti bianche. Per quanto ci si sforzasse l’unico contorno che si riusciva a mettere a fuoco era l’idealtipo di un obbiettivo, neanche un Ideale, l’idealtipo di un Ideale. Una cosa sorprendentemente cosi sfumata da circondarsi di Nulla. Con una torsione imperiosa ci si mette seduti lasciando che la panoramica scorra sul lungo tappeto persiano, illuminato da vampate di fuoco. Si stava galleggiando, o forse precipitando sul fondo mentre arti annaspanti provavano ad afferrare qualsiasi spuntone, la sospensione prima dello schianto. Tutto l’ambiente era teso all’inverosimile, i mobili, l’insopportabile monitor bianco, l’orologio, il pavimento liscissimo pareva la pelle tirata dei tamburi pronta a squarciarsi. Immobile come maschera funerea si prova allora a risalire con la mente a ciò che un tempo sembrava chiaro, così chiaro da essere inciso per l’eternità nella carne, ma nulla di quel tempo ritornava se non quel marchio, ormai legge, dottrina indissolubile e superflua. Internamente deceduta. Ci si ritrova dunque a vivere in un corpo morto, e, per quanto già lo si sospettasse, la conferma assume la radicalità di un nuovo Ideale, di una nuova dottrina. I pezzi stavano ritornando al loro posto, attorno a una certezza non certezza che era l’ambiente ideale per scrivere. Un oasi infernale dove rinchiudersi riscoprendo quella sottile goduria, la tragica gioia di essere un eterno dissidente. Il dramma si confaceva alla situazione.
Per la terza volta si sbatte il volto sulla tenace indifferenza dello schermo, scagliandogli contro la furia della vittoria, due occhi di fiamme e le lunghe dita che si avvinghiano come radici tremanti ai bordi del computer. Ma poi, per un secondo che pare un giorno, ancora quel grido soffocato che scuote ogni cosa, eruttando veloce da qualche parte molto lontano e, troppo vicino. Allora, osservato il monitor si leggerebbe…
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La furia monterebbe come un incendio sempre più pressante…
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Ci si alza ansimando con due polmoni gonfi d’aria rovente. Tastando si giunge alla finestra che si spalanca, fauce boccheggiante, attaccandosi con tutte le forze al balcone di pietra granitica, ultimo scoglio. Le mani diventano pallide le dita si serrano attorno alla roccia mentre l’insostenibile cappa azzurra rotea esplodendo in mille soli e mille firmamenti. Allora con uno stacco disperato di testa si guarda in basso nel profondo abisso. Le labbra viola si contraggono accartocciandosi e si spezzano espellendo vibrazioni rauche, pesanti macigni che rotolano giù.
Abbasso la Vittoria di Samotracia!
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Crepi la Bellezza e la Libertà
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Sprofondi la famiglia, il matrimonio, le amicizie…
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Lunga Morte ai musei, ai palazzi, alle redazioni!
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Maledetti i professori, gli avvocati e gli intellettuali
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Il fiato è esangue, risucchiato fuori da un turbinio di aria. In profondità siepi di teste febbricitanti scuotono le viscere della terra mentre macchine-tuono fulminano la strada. Lamenti di metallo si alzano verso il cielo. Allora si sale sul limite del balcone innalzandosi come una torre, proiettando le proprie braccia verso l’alto, espandendo il torace per un ultimo soffio, gli occhi elettrici, nubi cosmiche gravide di saette precipitate su frotte di tempie.
Uscite dalla saggezza come da un orribile guscio, e gettatevi, come frutti pimentati d’orgoglio entro la bocca immensa e tòrta del vento! Datevi dunque in pasto all’Ignoto, non già per disperazione, ma soltanto per colmare i profondi pozzi dell’Assurdo!
Poi le piante dei piedi cominciano a vorticare sempre più veloce nell’orbita di un tornado, le braccia rigide in mulinelli e il capo una spirale di scosse. Una furia sferzante di vento si contrae, esalando un lungo respiro, eco ferreo di un grido lontano, e troppo vicino.
Volteggiante sui vetri del palazzo, sola come un ombra, il profilo scuro di un abito e il pugno nero di una bombetta.
Quella sera un filo di luce penetra nell’appartamento vuoto, l’uscio si spalanca sul buio tambureggiare di passi pesanti.
Una tenue luce sfuma i contorni di un viso.
E lucenti occhi umidi come globi acquei.
Un monitor.
Bianco.
E nel bianco inciso…
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