Eravamo in tre, quella notte, in tutta Milano. Avevamo girato tutte le strade, più e più volte, cercando quel pericolo di cui tutti parlano ma che ci sfuggiva come una zanzara nelle notti d’estate. Ma non era estate signori miei, era pieno inverno, e ce ne accorgevamo eccome. Presto la ricerca del pericolo cessò di essere la nostra motivazione, e cercammo invece riparo dal vento gelido che, a noi umbri “in trasferta” per domare la bella Milano e forse – per i due scapoli – qualche bella milanese mordeva i volti e le mani e si insinuava in ogni fessura fra i vestiti.
A me, ragazzo di campagna, Milano appariva come un grande deserto, un po’ come il fondale oceanico.
Alle finestre non c’era più nessuna luce, e quelle che c’erano non ci avrebbero mai aiutato. Tutti i negozi erano chiusi. Nessuno era in giro per sorriderci, e nessuno ci avrebbe sorriso; ma questo ce lo aspettavamo e lo desideravamo, noi, pochi, spossati da ventiquattr’ore di viaggio senza un attimo di tregua, senza un briciolo di sonno, che ancora eravamo in piedi per poter tutto vedere e tutto sentire.
Ma quelli venuti cercando la guerra sono rimasti a bocca asciutta. Il grande deserto di cemento su cui duemila anni fa aveva messo i piedi Attila in persona invece del pericolo ci ha dato il freddo, e invece dell’estasi selvaggia di una vittoria senza regole ci ha ridotti a stringerci per un’interminabile mezz’ora dalle 4 alle 4,30 alla stazione, aspettando il treno di ritorno.
Invece del calore, fame e freddo. Invece della quiete, il dolore. Circondati da estranei dalle facce segnate, feroci, ognuno dei venti vagabondi alla stazione rimaneva nel suo angolo, tirando brevi occhiate rapaci agli altri, i nostri corpi stretti a pugno per tener fuori il freddo e le nostre menti strette a pugno per tener fuori il dolore dei piedi ormai gonfi e delle gambe infiammate.
Ad un certo punto, un uomo albanese prese il telefono e mise della musica. Era musica strana, contorta, aggrovigliata, convenzionalmente inascoltabile, balcanica fino al midollo. Eppure, qualcosa in questa musica presto mi sciolse il nodo che portavo nella spina dorsale. Un tepore, non da fuori, ma da dentro, portò via lo stress e il dolore; ero tornato umano. Ma se sono tornato umano, prima cos’ero?
Tornando a casa, penso a queste frasi che avevo sentito da qualche parte:
Signori lettori, oggi vi racconto di quello che ho trovato quella sera. Ho scoperto un apprezzamento nuovo per la bellezza; ho scoperto che non basta essere, ma bisogna fare; ho scoperto che girare il centro di Milano di notte è da pussy, e la prossima volta andrò a Napoli.
Oggi vi parlerò dei Kino.
I Kino sono un gruppo musicale russo degli anni ’80 guidato da Viktor Tsoy. Al loro tempo, la loro musica era rivoluzionaria; come potete immaginare, nell’Unione Sovietica le band rock non se la passavano troppo bene, e suppongo ci sia voluto un certo coraggio per continuare nonostante le censure e le minacce subite.
Ma, in tutta franchezza, me ne frega il giusto.
Sono persone passate di tempi passati; Tsoy è morto, e i suoi amici non suonano più. Io sono qui per la musica.
Come spiegarvi la musica di questo gruppo? È impossibile; dovrei legarvi a una sedia e farvela ascoltare.
Piuttosto, dovrei legarvi sulla corazza di un BTR e spedirvi in Afghanistan all’improvviso, senza che voi vi siate mai offerti volontari, il Vietnam dell’Unione Sovietica, dove centinaia di ragazzi come voi muoiono ogni mese, dovrei legarvi sull’acciaio bollente sotto il sole di Herat con la piena coscienza che non siete dentro ma sopra, al vento potete rassicurarvi dicendovi che anche se foste dentro, non saprebbe fermare neanche i colpi di un Mosin la vostra vita è polvere negli occhi, polvere nel naso, polvere nella bocca, l’elmo in acciaio fa sudare, l’olio sul Kalashnikov si sporca e lo fa inceppare, la strada è minata e piena di buche e rischiate di cadere a ogni attimo, e siete stati abbandonati da tempo fra le montagne bellissime curve come le labbra di una ragazza che sta per dirvi che voi non siete l’unico.
Imparerete che rumore fa un RPG quando vi passa a metri dalla testa, imparerete che rumore fa un proiettile che colpisce la carne, imparerete come trema la terra quando i Sukhoi lavorano con i razzi sui dushman
a chilometri di distanza, imparerete che tutto inizia e finisce in un batter d’occhio e rimane solo la tensione e il rimpianto, e solo allora, alla radio, un ragazzo metà coreano e metà russo ma potrebbe anche essere metà kazako, metà uzbeko, metà siberiano, sono tutti uguali ai vostri occhi canta una canzone che la vostra famiglia giù a casa conosce a memoria ma che voi non avete mai sentito:
Dovrei legarvi su un treno e spedirvi lontano, molto lontano, sul treno sbagliato, in una città sconosciuta, senza soldi, senza cellulare. Non c’è molto che conta più – prima o poi scenderete, e a ogni fermata vi si stringe lo stomaco dalla paura di essere troppo lontani, ma non volete scendere, non ancora, fuori è freddo, e preferite abbandonarvi all’abbraccio del treno ancora per qualche minuto come a quello del letto la mattina.
Al finestrino, luci passano davanti ai vostri occhi, luci di persone con un’intera vita che voi non vedrete mai; sono questo per voi, luci fugaci che spariranno in un istante, eppure vorreste trattenerle, vorreste parlarci, ascoltarle, fargli raccontare cosa hanno visto, cosa vedono, cosa vedranno. Enormi palazzi pieni di luci, centinaia, migliaia forse, insegne luminose che scivolano via come gocce di pioggia sul vetro, finché lentamente non rimane che il buio, il tutum tutum del treno che ormai è in aperta campagna.
Forse alla prossima fermata scenderete. Ma invece dell’annuncio di Trenitalia, alla radio sentite un ragazzo che canta in una lingua che non capite:
Dovrei farvi svegliare la mattina presto dopo pochissime ore di sonno, prendere il treno e arrivare sotto casa del vostro amico mentre il sole è a malapena in cielo. Vestiti selezionati con giorni di anticipo, zaino riempito a puntino, il peso sulle vostre spalle e sulle vostre gambe. Tesi, feroci, combattivi, occhi aperti. L’amico esce, esattamente come voi. In testa avete una ragazza, ma passerà presto è ora di scalare il monte. Arrivano le sette, le otto, le nove – siete arrivati alla base del monte e i piedi già incominciano a fare male.
Ridete al dolore: questo non è nulla!
L’acqua fredda delle fontanelle, il sole comincia a scaldare l’aria, i polpacci in fiamme dalla ripidissima salita – i sassi sotto i vostri piedi, il bastone nelle vostre mani. Vi fermate prima di mezzogiorno per accendere un fuocherello fuori strada e cucinate un caffé. Siete fatti per questo e per nient’altro. Il sole diventa cocente e vi togliete dei vestiti. Per una sezione andrete fuori sentiero, salirete sul lato del monte per fare prima. Prima un corno! Incessante aggrapparsi a ramaglie ed erba e terra, lo zaino troppo grosso si impiglia su ogni cespuglio, il peso, signori, il peso che le vostre gambe in leva svantaggiosa devono sollevare a ogni passo. Il sudore vi ricopre, vi riempie, e non siete neanche a metà.
La foresta finisce e c’è una distesa erbosa, la cima del monte – forza! Ogni passo è una lotta, ogni dieci passi vi fermate. Presto il paesaggio alpestre si svela ai vostri occhi, il forte vento vi aggredisce, la montagna sembra allungarsi sempre di più verso il cielo. In alto, c’è un parapendio. Non lo vedete, ma ha delle cuffiette. Nelle cuffiette si sente:
La musica dei Kino non si ascolta, si trova, si vive, si scopre, è nascosta fuori casa, solo fuori casa la troverete. La troverete in macchina di notte, la troverete nell’elettricista russo che la mette nel cantiere, la troverete davanti al centro di selezione e reclutamento dell’Esercito, ne troverete una cover pro-ISIS su un canale di mercenari su Telegram.