Una tempesta di fiamme danza sulla California, mentre sotto la superficie, nella caldera magmatica di Silicon Valley, ribolle una rivoluzione. Qualcosa di ancestrale si sta risvegliando, forse.
Avete presente Mark Zuckerberg? Sì, proprio Zucc, l’automa in maglia grigia che ha costruito un impero con i suoi vampiri dopaminici chiamati social. Ebbene, la sua trasformazione è iniziata.
Come un serpente, anzi, una lucertola – o qualsiasi rettile – che muta pelle, il CEO di Meta sta emergendo dalla sua vecchia corazza corporate. Prima lo sguardo vuoto e la camminata innaturale, poi, l’esplosione: chioma jewfro ribelle, barba da surfista californiano, sguardo da bro che vuole solo chillare.
Ma il vero terremoto sono le sue parole, dinamite che ha frantumato il monolite woke della Valley. Via il fact-checking centralizzato, spazio alle voci della folla digitale. Via il progressismo forzato dagli uffici, niente assorbenti per uomini! Discriminazione? No, ora è una lecita opinione. Per la libertà d’espressione promette un ritorno alle radici selvagge del web.
È come se il principe ereditario della tecnocrazia woke si fosse svegliato una mattina decidendo di passare al lato oscuro. Diremmo una frattura tettonica, se non fosse che non è il solo: Amazon lo segue, sembra che in tempi brevi i dipartimenti DEI siano stati aboliti da tutte le aziende, perché?
La domanda brucia come il fuoco che divampa, bruciando non solo la California ma la sua ideologia stessa: siamo all’alba di una nuova era o è una semplice ristrutturazione? Il pendolo è arrivato dall’altra parte o è collassato?
Cerchiamo di capirci qualcosa: Zuckerberg, prima delle elezioni finanziatore dei dem, cantava sereno il ritornello dell’obbedienza pandemica. Una storia da protocollo, no? Lo ammetteva in tempi non sospetti Zuckerberg stesso, il governo chiamava, lui rispondeva sorridente: via i post “problematici” sui vaccini. Tutto molto scontato, in pieno stile californiano i titani dell’infodemia “fanno ordine”. Censura-lite formato neolib.
Ma poi eccolo, Zuck, sulla sedia di Joe Rogan, in fase post-elettorale: non erano richieste cortesi, ma minacce al telefono dall’amministrazione Biden. Le notizie da censurare? Fondamentalmente vere, già all’epoca, non in retrospettiva. Boom. Ora abbiamo Mark che gioca alla vittima dell’intolleranza liberal. Uno Zuckerberg che non è più il profeta, ma il tentacolo che si rivolta alla piovra: piegato dal deepstate, forzato dall’establishment.
Un’operazione simpatia che – diciamocelo – perplime. Ma davanti a tutte le possibili spiegazioni, forse la più vera è la più noiosa: non è questione di ideali o rivoluzioni – è pura, cruda matematica del mercato.
La grande macchina del wokismo, un tempo rutilante di engagement, sta perdendo colpi. Continua a sfornare contenuti che nessuno vuole più: serie TV che muoiono in culla, videogiochi che brillano nelle recensioni comprate ma implodono al day one. E Zucc, Cyborg con un’anima da broker, ha fatto i suoi calcoli. Il giovane liberal metropolitano, target perfetto di ieri, non è più il re del consumo. La Generazione Z e la Generazione Alpha stanno sviluppando anticorpi contro i valori preconfezionati di un progressismo che perde di autenticità quando calato così dall’alto.
C’era da prevederlo: quando il progressismo è passato dai capelloni alle cravatte e si è seduto nei consigli d’amministrazione, ha firmato la sua condanna. I giovani, eterni ribelli, stanno virando verso lidi più conservatori. Non per convinzione, ma per pura allergia al conformismo aziendale rainbow-friendly. È semplicemente scaduto, come quando un meme finisce nell’arsenale del SMM della pagina Instagram di un’azienda, non piace più a nessuno.
Forse Zucc non è altro che un mercante di Venezia digitale che ha fiutato il vento del cambiamento. Che oggi ci sia un feticismo dell’estetica conservatrice non è un segreto, un culto dell’estetica old money, una passione per il “lusso discreto” finisce rapidamente sul feed se si osservano i trend legati alla sottocultura giovanile di oggi, legata al looksmaxing, ai maître à penser contro il Matrix e ad un certo gusto per la dance anni 90-2000.
Riavvolgiamo il nastro:
non molto tempo fa erano i conservatori a fare le valigie, abbandonando le metropoli digitali di Twitter e Facebook per i sobborghi ideologici di Gab e Parler. Ma il karma è una bestia bizzarra. Con il voltafaccia di X, l’emigrazione progressista verso le terre promesse di Threads e Bluesky si è rivelata un flop epocale. E così, la grande macchina di Meta ha dovuto ricalibrarsi. Non è uno shift definitivo, è solo strategia della tensione come non l’avete mai sentita prima (e di cui presto sentirete parlare sulle pagine di Proiettili).
Ora i nostri occhi sono puntati su chi sostituirà Tiktok negli Stati Uniti. Con il ban del gigante cinese che incombe, la domanda brucia: quale bandiera ideologica sventolerà sulla piattaforma? La vinceranno gli esodati blu, l’onda rossa? Si uniranno dietro un algoritmo belligerante anticinese?
Oppure, mettiamoci un momento l’elmetto per improvvisarci esperti di geopolitica. Un nuovo capitolo si sta scrivendo con le terre rare. Meta si trova improvvisamente a fare i conti con la più antica delle leggi: chi controlla le risorse, controlla il mondo.
Per Zuckerberg il silicio è più prezioso dell’oro, i lantanoidi sono la sua valuta. Ora l’America è ad un nuovo capitolo del suo eterno valzer tra due nemesi: l’Orso russo e il Dragone cinese. Trump ha sempre guardato a Est con occhi di ghiaccio, mentre la sua base elettorale affonda le radici nel greggio e nel ferro, non nel codice e nei server.
Ed ecco che la “conversione” di Meta assume contorni più interessanti: è forse un’offerta sacrificale sull’altare della sopravvivenza tecnologica? Un elaborato rituale di sottomissione per garantire il flusso vitale di terre rare e microchip?
Zuckerberg si piega come un samurai che sceglie il momento giusto per la sua apparente sconfitta. La domanda che riecheggia non è più “quale ideologia?”, ma “quanto silicio ci resta?”. Forse per i giganti, fingersi maldestramente sopra le parti non è più un’opzione, la sopravvivenza vale più di mille ideologie.
Forse il motivo è anche più sinistro: i puntini luminosi sullo schermo radar della governance globale si moltiplicano, c’è una tempesta all’orizzonte. La globalizzazione è un cadavere che ancora non sa di essere morto. E in ogni angolo del pianeta, focolai di guerra lampeggiano come spie d’allarme su una console impazzita.
Allora è possibile anche questo, l’establishment sta facendo marcia indietro. Come un aguzzino che si ritira strategicamente, abbandona le trincee del politically correct per un obiettivo più grande: riconquistare i cuori e le menti della maggioranza silenziosa, quella massacrata da anni di guerre culturali e psyop.
È un calcolo cinico ma cristallino: quando i tamburi di guerra rullano, non sarà certo il Battaglione Bologna a tenere la linea del fronte. L’Occidente ha bisogno di soldati, non di influencer. Di patrioti, non di attivisti da tastiera.
È come se i manager dell’apocalisse avessero tirato le somme e notato un problema importante: il maschio bianco eteroci- quella roba lì, non è interessato a difenderli, è apatico, addormentato e non vuole partecipare all’eventuale guerra. Le minoranze corteggiate sono sleali o semplicemente inconsistenti: per sopravvivere alla tempesta che si avvicina, serve il supporto di quella massa critica che per anni è stata dipinta come il nemico, che ogni intellettuale poteva bastonare senza conseguenze. La maggioranza è troppo disconnessa dalla Matrix sociale, stanca di essere il punching ball di ogni media di tendenza. Troppi anni di flagellazione hanno creato una generazione di disertori ideologici.
Ora il pendolo oscilla indietro, ma con precisione millimetrica: solo quel tanto che basta per riaccendere la fiamma del patriottismo in chi dovrà imbracciare il fucile. In altre parole, queste concessioni sono come dei cavalli di Troia al contrario, non è un cambio di DNA profondo – ma solo un calcolo bellico calato dall’alto della politica sul capo dell’economia.
Quindi eccoci qui, testimoni di questo grande reset culturale mascherato da “ritorno al buon senso”. Mentre i venti di guerra soffiano sempre più forte, potrebbero aver concesso qualche vittoria di Pirro in battaglia, in cambio di fila per le guerre future.
Ma volendone cogliere qualcosa di positivo:
Spalanchiamo le porte dell’Apocalisse informativa!
Nel grande circo mediatico, finalmente c’è il coraggio di strappare la maschera della “verità certificata” che copre la natura caotica dell’informazione.
Lo abbiamo urlato in tempi non sospetti: TUTTE le news sono fake news!
I fact checker? Sacerdoti di una religione senza dio. I giornalisti? Narratori di favole che si auto-legittimano in un circolo vizioso di credibilità reciproca. Gli esperti? Attori politici mascherati, non disinteressati al servizio del vero.
È un gioco di specchi deformanti dove la verità è solo questione di angolazione: cosa illuminare, cosa lasciare nell’ombra, quale filtro applicare alla realtà. Ogni storia è un remix, ogni fatto è malleabile come plastilina nelle mani di chi lo racconta.
Allora che il caos regni! Che l’informazione si propaghi attraverso i meme, virus digitali che mutano nell’ecosistema dei social. Almeno qui la selezione naturale è reale: vince chi sa toccare le corde giuste, chi sa condensare la complessità in un’immagine virale, insomma, chi fa ridere.
Non è anarchia – è darwinismo informativo. In questa giungla l’egemonia non appartiene più ai custodi autoproclamati della verità, ma a chi davvero sa parlare il linguaggio del web profondo.
La verità è morta? Lunga vita ai meme!