Artoldo, già intervistato per Blast, clicca una della due figure qui sopra!
6) Potete rivelarci i segreti della vostra Germania Male?
Wundersaar. Dove cribbio vi siete inventati questa dizione? Ad ogni modo, facciamo che la si adotta per rispondere a codesta domanda sotto mentite spoglie. E a cui rispondiamo come se tale dicitura esistesse davvero – in fondo abbiamo capito dove state andando a parare, su Germania segreta che tanto segreta non è. E chiamiamola allora Germania Male. Ecco, Germania Male è in potenza una denominazione e/o* una demonizzazione. *(e/o non è incertezza o approssimazione, è procedere logico umano che presume lo sforzo del pensiero ma ne accetta i sovrapensieri così come i retropensieri) Per quanto riguarda il primo caso, l’eventualità è a scelta e a piacere tra d.o.p., d.o.c., d.o.c.g., chiaramente ognuna di queste casistiche rimanda ad una filosofia della storia differente, opposta, complementare o rafforzante, verosimilmente parallela. Ci si può sbizzarrire infatti a rintracciare nella storia e nell’attualità queste denominazioni – in sociologia una denominazione è un movimento che cerca di organizzarsi in Chiesa, stadio intermedio tra questa e la setta -, ognuno pensi al suo cancelliere di fiducia o alla sua mozzarella Lidl preferita. Ognuno pensi a chi mettere nel castello come protagonista o figura ispiratrice del suo personalissimo The Man in The High Castle.
I teteschi comunque invidiano sittanto il modo di fare italico che hanno preso anche loro a non rispondere più alle mail, che così finalmente si sentono tutti ugualmente anarchici. E noi abbiamo preso in cambio la cancel culture, la cultura del cancellino del Cancelliere, tiè – che mica è americanata, almeno quanto la cultura hippy lo è se non si conoscono i protohippies di Worpswede, a Karl Diefenbach, Gusto Gräser, Fidus e altri beautiful loser love&peace teutonici che con cipiglio giocavano il gioco “riformiamo la vita” i protocolli della Lebensreform, tra danze euritmiche, bagni di sole, ma anche vegeterianesimo spinto fino al blocco intestinale, baccanti figliole di papà al tempo non instagrammabili, comunque belle storie, non c’era ancora la CIA a riempirli di droga da Urlo & Kaddish.
In quello che in italiano è stato voluto intitolare La svastica sul sole la resistenza è stimolata dal found footage di vecchie pellicole – Westalgie, ma americana – quasi un inverso del fenomeno dell’Ostalgie, dove il passato comunista è immediatamente evocato da oggetti d’uso quotidiane, mentre lì negli Stati Centrali e in Philip K. Dick le collezioni di buone cose di pessimo gusto rimangono inerti in quanto pure commodieties, morte memorabilia buone per jap feticisti e che portano gran disgrazia pure all’antiquario che capitalisticamente ne dipende. Mentre l’immagine in movimento, quella anima, come si addice ad una pura società dell’immagine degna di quel nome come quella americana; come nella dondelilliana Americana appunto – sì, lui è una mia ossessione – e in Running dogs e in The Names, filmmaking e immagini ritrovate animano la fine della storia – à la Fukuyamà. I registi e filmmaker nei suoi romanzi mi hanno sempre mosso intimamente ad impugnare una cinepresa con fervore e con il sogno di creare un nuovo dogma, per mille o non più mille o solo una notte, e un po’ di movimento attorno.
Se c’è un fatto ricorrente è comunque che chi la fa la scampa e con un passo più lungo della gamba si arriva al Male perpetrato dalla Germania ripagato infine col suo paio di pugni di pene capitali, giusto “Quella sporca dozzina”, maniman che gli rivenisse di nuovo la revange, tutti zitti e muti, zitti e buoni o improvvisamente dimentichi o con la coda sporca fra le gambe, manipolo di esserini da Realpolitik o annichiliti repubblichini. A mali estremi, estremi rimedi ovvero far niente, più estremo di così.
Dopo il ‘45 alla Germania è stata attribuito il marchio D.O.C. sia ad est che ad ovest; alla caduta del Muro gli è stato apposto il D.O.P. e il ruolo avuto nel nuovo millennio è finora stata da D.O.C.G., la prossima denominazione non è detto verrà scelta nei confini EU, potrà essere infatti benissimo di provenienza extra EU, alla faccia dell’olio d’oliva che loro preferiscono greco per sciacquarsi la bocca (e infatti ci fanno l’oil pulling, detto Ölkauen ovvero “masticata d‘olio”, creduta toccasana contro la carie e che sputano poi con gran vigore) e la coscienza come anche per non allocare troppa preferenza al nostrano EVO, che gli Italiener han causato il dramma Xylella fastidiosa mentre ballavano il bunga bunga con pizziche vincenti gli Eurovision Song Contest – tra l’altro altra grande trovata del dopo guerra per scurdarce ‘o passato – o alla faccia del Kinder, creduto una marca loro – lo credono in tantissimi krauts! Intanto il passaporto italiano ha una marcia in più del loro: in Nepal, non dimentichi delle mire dell’Ahnenerbe, i cittadini della BRD entrano con qualche difficoltà in più – sembra invece lì abbiano condonato il Gentile Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente by Giovanni, ma forse perché quelli erano in fissa più con il Tibet.
Nella prima decade del duemila c’è chi ha provato poi a lanciare Berlino come città della moda, dove ogni capitale africana è molto più titolata a dire la sua riguardo alle cose vestimentarie. A Berlino non penso mai, accidenti che accentaccio, forse per questo che adesso fan finta di parlare tutti flawless American English – chissà però come mai nella città dei “poveri ma sexy”, la disoccupazione resta alta con un primato tutto loro e le industrie culturali create dagli expats americani sembrano salde nelle loro stesse mani, difficile che nomi tedeschi e atlantici si mischino, si mischiano solo in quelle a guida tedesca, tedeschi freak del controllo, basta che sia di marc(hi)o guerra fredda, si sottopongono più volentieri ancora al Check Point Charlie (si veda poi l’ossessione per l’amicizia franco-tedesca). Americans in, Germans down. Spagnoli e italiani raus (in realtà troppo maliziosamente intraprendenti nel campo culturale, e allora giù di stereotipi, intiepiditi da qualche stucchevole sviolinata per i Südländer), greci tot (: morti, si vedano gli omicidi detti “del kebab” e la Führung, tedesca della Troika). L‘interesse del tedesco medio nei confronti del prezzo per i generi alimentari è poco differente da quello nei confronti della carta igenica, non vanno per il sottile, tutto finisce sulla piattaforma per intime osservazioni dei loro cessi Kaiser – che tipicamente hanno un’alzatina dove tutto rimane prima della tirata di sciacquone. Abbastanza male? Se Nietzsche ce l’aveva con il risentimento cristiano, chissà cosa direbbe ora con certe invidiette da elementari che tutte sommate in effetti di composizione non sono poi proprio trascurabili, sebbene oltremodo triviali, tutto sommato il Trivial Pursuit lo si vinceva con banalità – c’era pure un falso lemma, contromisura messa a punto per sgamare plagiarismi vari e violazioni del copyright (questione su cui torneremo con il nostro destro folk hero LB solo apparentemente sinistro, in realtà anche le corporationss si divertono con il copyleft).
“Mi alzo col piede sinistro, quello giusto”, cantava quello là. E qui si entra nella ricostruzione della storia del perché le cose sinistre sono state sempre reame d’elezione per le destre (fino al cyberpunk, sussunte dal sogno californico) e le cose droit prima erano di lotta sociale protosocialista, giacobine piuttostosìanzichéno. Tutte le cose diritte mentono. Ogni verità è ricurva, diceva il miglior amico antimoderno di Zoroastro. In un ribaltamento prospettico sfalsato ora di 45°, più in là cambieranno il grado e il parallelo, tutto è passibile di essere rivisto, passato in rassegna, se valido revisionato, altrimenti archiviato sulla blockchain ma per carità, si faccia attenzione ai metadati, tutti ben selezionati, con un’alacrità non più presente in nessun bibliotecario manco se è bocconiano blioeconomista, qualità che invece senz’altro possiede l’utente mediocre di ogni canale di scolo social, munificamente munente di tecnicissimi #s le sue musane di canidi o le sue proprio musane, mutande o altre amenità. Questo è decisamente un problema e non solo di gusto guasto. Inoltre, anche diagnosi sociale: fatto è, che piaccia o no, siamo tutti cognitive workers, la stragrande maggioranza senza un soldo ma tutti al soldo di qualcuno che ci vuole in preda di noi stessi. Il capitalista di turno, yes, che adesso si chiama platform. E invece dobbiamo tener botta. E trovare in quella botte un po’ di sollievo. Sembra che a prescindere comunque dall’anatema sull’accelerazionismo come visione politica, tutti lo siano diventati accelerazionisti, almeno una tantum, c’è dell’accelerazionismo anche nello slow food, nella forzatamente voluta monotonia degli hikikomori – No (video)game, no life –, nei nuovi eremiti, nei nuovi movimenti, nei normalos. Tutti in cuor proprio vogliono vederla, la Signora Singolarità, purché si esca dalla gabbia d’acciaio del post-moderno. Abbiamo sempre vissuto nel castello, del resto.
May you live in interesting times, diceva spietatamente soave come solo una Cassandra feroce, lo slogan Biennale di Venezia 2019, la maledizione asiatica, profezia che si autoadempie, teorema di Thomas.
Ma Germania Male ve lo siete inventati voi, avendo avuto una sorta di storta telepatia mediatica che comunque curiosamente si è avvicinata a un nostro vasto campo di studio e laboratorio di creazione. Purchessia, rimanendo in tema, alla ricerca di comprendere l’humus culturale tedesco del momento fatale appena prima che la nazione si ascrivesse così tenacemente al pensiero bellico e plutonio e con fuoco e fiamme difendesse una sua demoniaca superiorità, ci siamo imbattuti nella figura di uno studioso d’eccezione, il germanista Furio Jesi, a dir poco originale, complesso e significativo; docente universitario di cultura e lingua tedesca senza nemmeno aver frequentato il liceo, ci ha lasciato libri di una lucidità illuminativa su tematiche iperspecialistiche, altresì capaci di fungere da trait d’union tra saperi lontani, percepiti come iperuranici ma invece fondamentali per spiegare costrutti e complessi che hanno avuto Umane troppo Umane ricadute nel tempo della Storia e degli Uomini – sebbene si richiamassero fuori dalla Storia. Un acume fuori norma, enfant prodige compilava un volumetto sulle ceramiche egizie e partecipava a scavi in Grecia e Asia minore, spinto da sete intellettuale mista a preoccupazione di sostenere la famiglia sì borghese ma in difficoltà, altri dicono sentisse da sempre di doversi affrettare perché scomparirà molto prematuramente. Ebbe un padre morto tanto giovane e tanto fascista che pur essendo ebreo il regime credette di doverlo “arianizzare”, distintosi per valore militare fino all’amputazione di una gamba in veste di volontario nella Guerra d’Eritrea, insignito della medaglia d’oro e di bronzo; Furio non lo conobbe ma ovvio che quella figura così fremente rappresentò l’abbrivio brivido di quasi tutte le questioni del suo febbricitante studio, così come qualche malia strana sarà stata pure emanata dal nonno da parte di madre, massone, per cui fu gioco forza lui si desse anima e corpo a voler dipanare il filo di quelle Erinni, altrimenti dette Furie. E da lì fascinazione per la cultura tedesca, per le vette di quelle creazioni letterarie, artistiche, che riuscivano a diventare subito classiche per impostazione e postura e quella particolare produzione scientifica dove l’approccio filologico amato-odiato dal filologo Nietzsche produceva scritti misti tra letteratura e scienza in campi non ancora esplorati e negletti, lingue antiche, religioni arcaiche, culti misterici. Divenne germanista innamorato di quei materiali di studio e bisognoso di capire il demone di quella ossessione di morte che li aveva presi, del loro spirito di morte e dell’irrazionalismo che si era fatto corrente ctonia politica entusiasmante per la psicologia delle masse.
La speciale intuizione di Jesi è che si potesse indagare al meglio quel composto da un punto privilegiato fuori dalle vicende e al contempo nel genoma di tutti i drammi degli umani, ovvero a partire dal capire come la questione mitica funzionasse nella cultura germanica, che ruolo attivo avesse il mito nel sentirsi proprio di quella nazione, quali fossero le specifiche del suo funzionamento. Nel far questo partiva dal suo mentore, scelto per corrispondenza e che lo credette già un affermato accademico, il filologo ungherese Karóly Kéreny, il quale considerava il mito l’immagine primigenia dell’anima umana, sua struttura e fondamento, concezione del resto sinergica alla teoria archetipica di Carl Gustav Jung con cui scrisse un’opera in quel senso; Kéreny registrava e ipostatizzava un distanziamento originale e per sempre dal mito della cultura classica, il quale ha solamente a che fare con la divinità e nient’altro e in quel distanziarsi una sua antropomorfizzazione di marca detta demoniaca, là dove il mito smetteva allora di essere “genuino” e così manipolato dallo svolgimento storico e dalle trasformazioni culturali diveniva “tecnicizzato” – una specie di lontano analogo, sovviene scrivendo, allo sviluppo che Max Weber vede nel disincanto del mondo e nel contemporaneo processo di burocratizzazione in seno alla società moderna ed industriale. Forse la tecnicizzazione del mito era un mero tentativo di spiegare le forze infere dell’animo umano, la sua parte appunto demoniaca che la religione soffocava e l’arte esprimeva in forme immaginifiche, magnifiche, mostruose e che solo con il deus ex machina della scoperta dell’inconscio si riuscirono ad inquadrare diversamente. In quel solco argomentativo Houston we have a problem è quando l’umano demone viene a toccare il mito puro piegandolo e piagandolo alle sue voglie, così come in un crescendo più unico che raro, in un clima di fervore assatanato e in un climax da snuff movie dove la censura è ribaltata ovvero nell’alto novecento della Germania (alto nel senso della distinzione del Medioevo in alto e basso, dove l’alto corrisponde invece a quello basso, qui della bassezza). Praticamente un’apoteosi in cui non è l’eroe che diventa dio ma è il demone a tentare la scalata della cupola della mai eretta Germania (letto ovviamente, Ghermania) – ci sono invece riusciti senza colpo ferire a Kuala Lampur, a parte un sicuro imprecisato numero di caduti “dal” lavoro. Mentre Kéreny rimane nell’approccio filologico seppure transdiciplinariamente antelitteram, Jesi molto più sociologicamente va ad individuare nella Germania storica, precisamente nel passaggio alla società moderna matura, uno scarto di marcia del ruolo che l’etica del Cristianesimo riformato aveva avuto tramite la borghesia in ascesa nel modellarne la struttura sociale attraverso l’agire economico impostato a quella cultura riformata e quindi, subentrata una diversa fase, di inattualità di tale rigore razionale con foga intramondana data la ricchezza raggiunta, verso l’apertura ad una flemma di nuovo più “aristocratica”, da otium, sentita come un ritorno a sognate società nibelungiche implementate di un tempo liberato dalla tecnologia che quella società così evoluta in quel senso era riuscita ad esprimere e raffinata dall’esperienza che c’era stata in mezzo, dove questa nuova disposizione dello spirito poteva aprirsi ad un fare reputato oltre il borghese, nuovamente nobile, capace di sprigionare forze creative in senso artistico, contemplativo, speculativo.
Ad ogni modo, Jesi, schierato più che apertamente sulla rive gauche del ‘68 è a nostro avviso nel suo argomentare molto più conservatore di quanto lo si sia voluto sempre dipingere o lui stesso si credesse e lo è proprio nell’intentare una filosofia dell’arte, un’estetica che è profondamente sia morale che moraleggiante, intrisa di pedagogia – che infatti all’Università di Palermo insegnò al magistero. Giusto dell’umanità, senz’altro, ma propone una visione almeno dell’arte del tutto lunare. Come se, da critico letterario che era, l’individuare quell’arte che a suo avviso era demoniaca discesa e allontanamento dal mito genuino gli facesse bollare certa arte come entartete Kunst (: arte degenerata), proprio come i nazi facevano con la pittura espressionista, che comunque, diciamolo, in fondo invece a loro piaceva proprio – si odia quel che si ama, l’adagio popolare, così come Jesi non può buttar via con l’acqua sporca di un’arte demoniaca, capolavori indiscussi del genio tedesco. F. J. ad esempio conobbe Pound e ne rimase folgorato, anche se i due erano il Diavolo e l’acqua santa. Rimanendo ambiguo nella sua lettura comunque lo stesso estremamante illuminante nonostante il punto appena detto, quasi lo è meno Thomas Mann nelle Considerazioni di un impolitico, il borghese pruderico che Jesi aiuta a sgamare quando questo trova fremito nel superare il limite che si autoimpone e che lo portano a considerazioni che sono un vero coming out simbolicamente politico, solo per aver pace e da cui farà marcia indietro nella sua letteratura, vergognandosene a vita. Jesi forse credeva ci si riproducesse come gli dei dei miti, dalla testa, dalla schiuma, per frammentazione, gemmazione, cosa in sé anche interessante come alternativa e questione molto attuale pensando alla procreazione 4.0. – che piaccia o no, perché la microplastica ormai ha distrutto il perfetto meccanismo dell’orologio ormonale umano – e se è così prima o poi anche gli animali inizieranno a non sentire più l’estro. Sebbene abbia lasciato un valido strumento euristico ad esempio per leggere la cultura politica di destra, per il resto di tanto del suo pensiero attorno all’arte (nella sua fattispecie letteraria) è difficile immaginare un’arte che non sia neorealismo, realismo socialista o illustrazione stile “Svegliatevi!” (che poi è già tra le riviste più diffuse al mondo) o comunque new age, oppure per converso arte d’accademia, impostata, classicheggiante, misurata che possa stare nei canoni di un’ispirazione da un mito genuino. Forse solo con la polizia morale.
Stiamo facendo un lavoro super visivo su Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ‘900 sia perché questo insolito saggio ha una valenza cinematografica, una di quelle scritture che fungono da sceneggiatura con molti anfratti, digressioni e incisi, tutti comunque funzionali al dipanarsi della questione estetico-morale che spiega la brutta sceneggiata del dramma in cui sono stati farse i signori nazisti – farse serissime, fossero almeno stati semiseri sarebbero stati di genere, più della serie underdog, ma questi volevano a tutti i costi la grande colpa, fino all’ultimo respiro, che tanto secondo gli insegnamenti superumanoidi, meglio insistere nella colpa e infine auto-incolparsi, che farsi dare ragione dagli altri – anche perché ci sono riusciti finora giusto i negazionisti. Al di là del principio di piacere c’è la coazione a ripetere, così Freud, un perseverare diabolico nel cui solco Jesi porrà le sue riflessioni rispetto a quella pulsione distruttiva sgorgata da così in cima, dalla poesia e dalla letteratura, da un pensiero ormai pensante secondo la “macchina mitologica” del mito tecnicizzato, uno spirito di morte semprevivo tenuto in piedi, fattosi volontà di potenza incarnata e non rimasto sublime su carta o tela, sulle vette irraggiungibili dell’arte e dello spirito – anche perché a parte rarissime eccezione di poeti e scrittori divenuti classici, il resto di quell’arte così vibrante era davvero espressione potente di volontà e rappresentazioni esistenti, sconvolgenti, (s)travolgenti. Nell’accostarsi a quell’ambiente letterario per lo più monacense dell’epoca che esamina Jesi si imbatte in un’altra figura che a pensarci bene è analoga al padre suo, ebreo e fascista guerrafondaio: Ernst Kantorowicz storico tedesco di origini ebraico-polacche, fervido dapprima antipolacco in senso stranazionalista tedesco e antibolscevico antispartakista della prima ora e che più tardi, da cacciato, esule in America, si dovrà improvvisare di sorpresa antimaccartista, avendo conosciuto bene ben altre purghe valpurgiche e cacce alle streghe. “Germania segreta” legherebbe insieme fascicoli di studi, da una lirica di Stephan George, poeta da cenacolo, passando per Kantorowicz – che appose una targa a Palermo sulla tomaba di Federico II°, “alla Germania segreta e ai suoi imperatori” in occasione di una visita in Italia per settecento anni dell’Orientale di Napoli -, un urlo di battaglia ultranazionalista ma che per un gioco del destino e per conoscenza si vocifera fosse stato anche del conte Claus von Stauffenberg ufficiale prussiano attentatore di Hitler – e che con il suo proprio fratello e assieme a Kantorowicz faceva parte del cerchi magico del poeta lirico George – in un estremo gesto che, sia stato quello che sia stato, lo stesso in quel momento sarebbe valso al netto di tutto come atto di Resistenza. Che dire, come con Luther Blissett ci siamo presi una bella patata bollente!
Per celebrare la figura di Jesi nel quarantennale più uno dalla sua scomparsa abbiamo intanto dato luce ad un videoclip, Frammenti di una festa furiosa – “Furio’s Furious Fragments and Friends”che mette insieme nel titolo l’opera sul demone amoroso di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso e La festa.
Antropologia etnologia folklore di Furio Jesi, unendo i due scienziati del mito d’oggi – le due opere sono anche coeve – con focus sull’imperitura fascinazione per il festival, tra demoni di feste morte, da fine del revival – e quindi del postmoderno? La festa furiosa in cui materiali mitologici storicamente espressi dalla macchina mitologica, per autopoiesi (guarda caso terminologia anche lutherblissettiana), diventano una Cosa d’esistenza separata, un mito moderno frutto di lontane esperienze collettivamente esperite, oggi solo trasmettibili come mere e lontane “conoscenze al riguardo” attraverso il meccanismo della socializzazione a loro volta veicoli di precise culture politiche e non più rivivificabili in quanto vissuto. Tra l’altro in La festa Jesi introduce il concetto di sospensione del tempo storico poi così centrale in Spartaco. Simbologia della rivolta.
Come ci è venuto il video? È frutto di un fenomeno glitch realmente occorso online nel mentre che si consultava un calendario accademico torinese per sapere dei giorni festivi, ecco, sono apparsi sullo schermo come coriandoli carnevaleschi e da lì la sinapsi verso ciò appena spiegato. Nella clip appaiono glitchati Walter Benjamin, Károly Kéreny, Roland Barthes, Elias Canetti – del cui Massa e potere Jesi è traduttore e che anche Luther Blissett dice di aver divrato, preso bene da spiegazioni del tipo, “si ride invece di divorare. L’uomo ha imparato a sostituire con un atto simbolico l’effettivo processo di incorporazione”.
Ogni documento di civiltà è allo stesso tempo un documento di barbarie, scriveva Walter Benjamin; la battaglia razionalista civilizzatrice affronta con la sua grandesse la cultura, dove questa in un ottica nietzschana contro il senso comune del termine, in un senso squisitamente extramorale, è l’unico possibile recipiente delle ricette per la vita – che sono quelle della nonna, revisited, una nonna che comunque cerca di farsi furba e saggia anche con gli NFT, come le donne sotto il patriarcato talebano, che senza aspettare che arrivi il microcredito possono aprirsi un wallet segreto online. Terzo mondo segreto.
Ad ogni modo l’approccio di Jesi, ampio, vasto, gigantico e soprattutto capace di trovare l’angolo morto nello specchietto per le allodole – che poi è quello di Marx e Freud, lo rende fuori tempo e per questo vintage e attuale, me lo sento anche un po’ mio. E sapete cosa abbiamo tutti in comune? Ebbene sì, lo ammetto Vostro onore, sono anche io del segno del Toro.
In una notte in cui tutti i gatti sono bigi e fan fusa come sirene, può darsi che, come comprese forse Rilke, beniamino di Jesi, forse i draghi sono principesse nella notte, come loro impotenti e bisognosi di aiuto; come la kudalini, forze infere avvelenano da dentro, acquisizione di potere è renderle luminose, cambiare stato alla materia oscura, come il serpente cambiare pelle; con la capacità di calcolo archetipico dataci dalla cultura postmoderna processare tutte le metafore dell’umanità come il supercomputer che siamo nei sogni – ma al di là della sintesi, sintesi più o meno sottrazione, per rimescolare le carte e sviluppare varianti stupefacenti; questo è il moto accelerato di un vento caldo della notte dei tempi che avanza verso un sole cibernetico, Shin sekai – ci serve il sole cibernetico, per quando questo morirà e se arriverà invece prima della morte di quello naturale avremo due soli, parelio nella macaia, pensateci, win-win per tutti. “Lo sviluppo progressivo dell’uomo dipende in modo vitale dall’invenzione”, diceva Nikola Tesla. Da riprendere Rudolf Steiner, il più odiato dagli esoteristi tradizionalisti.
Germania segreta stava allora per l’evocazione di centri di potere di forze ctonie e herderiane ammantate di lirica, che in un determinato momento si sono anche travestite di sofisticata ed aristocratica resistenza al potere hitleriano con il sacrificio bello e inutile di Stauffenberg; nonostante poi in fondo anche nel circolo George-Kreis poi alla fin fine era tutto un Blut und Boden isterico e quindi fossero della stessa pasta.
A prescindere dagli antecedenti noi oggi ci chiediamo in che senso esista oggi una Germania segreta. Ci va di capire quali sono le cose più indicibili della politica tedesca oggi. Chiaro, c’è una Germania segreta che è neo-nazista soprattutto in quanto razzista, ma oltre alla Die unendliche Geschichte (La storia infinita) di questa faccenda, c’è qualcos’altro? Forse banalmente vogliamo fare una survey giornalistico-politologica-sociologica attraverso metodi artistici, tra la sociologia visuale, la teoria critica, la teoria mediatica, quella memetica. Ad esempio, sarà scioccante fare un viaggio tra i meme tedeschi, che sono in primis da tradurre al pubblico italiano e nel tradurli ci sarà una rielaborazione, speriamo provocatoria e se lo sarà sarà a prescindere da noi, noi ne saremo solo il riflettore. Vorremo usare l’intelligenza artificiale, vediamo dove ci porta capire il deep state tedesco con il deep dream. Il tutto senza nascondersi dietro la cancel culture, che confonde tutto: che cancella cancella di cancello in cancello si mette troppo facilmente alla porta e chiusa questa non si apre nessun portone, soprattutto quella dell’ineludibile comprensione della realtà, che ci sarà sempre, anche nell’irrealtà di una matrice, di un microchip impiantato, di un mondo tecnofeudale, di un privitivismo, del socialismo reale compendio di tutte le vecchie e nuove Terze vie, della Repubblica di Platone o quella delle Banane.
La Germania è un nostro pallino, in fondo siamo un duo italo-tedesco, ma è la parte italica ad esserne più ossessionata, o comunque ad esserlo più in chiave storico-letteraria, la parte germanica lo è per dimostrarne nell’attualità la non eccezionalità in fatto di intrallazzamenti nonostante l’elegante e mai sbavata copertura istituzionale – con deviazioni varie, eggià non è solo cosa nostra, questa è la cosa grossa, ma più in direzione di un sistema di censura non appena c’è dell’ideologico, una censura che fa poco male, più da polialgia medicalizzata. Fa comunque assai specie il fil rouge che torna sempre allo scoperto nella cultura di destra dei due paesi, il primo ai tempi, come dire, della sua invenzione, l’ultimo nel tentativo di golpe nella Germania del 2002 come nell’Italia del 1970, che avrebbe coinvolto in entrambi i casi la notte del sette dicembre e due principi. Tra RAF e BR lo stesso legami, ma d’ordine più pragmatico e non pratico simbolico come nel caso inverso. Compresi i circa 20.000 seguaci di lì e di là. Anche se i tedeschi sono così poco interessati a noi che quasi l’ipotesi del non-a-caso rasenta il risibile. Loro sono tutto anima e core per la fratellanza Deutsch-Französisch. Almeno apertamente, poi cosa il loro subconscio celi, cieli neri, dove osano le aquile, in fondo il loro sogno imperiale “più fondo del fondo, della notte, del buio e del pianto” è indissolubile dai destini incrociati che gli aurispicini vedevano negli arrosticini. Ursache, tradotto letteralmente vuol dire cosa primigenia, quindi causa, motivo, origine. Quell’Ur- è stato per alcuni un’urgenza programmatica, una formula sintetica che come ha spiegato Eco, ecco, sottintendeva tutto un mondo, un The brave new world. Keine Ursache è formula di gentilezza per dire in tedesco “non importa”, almeno così dicono vocabolari e senso comune, ma, tradotto in senso letterale può voler dire “nessuna origine” e questa nuova azzardata nostra interpretazione interna alla lingua loro potrebbe essere la fine di tutta La storia infinita (Michael Ende, Michele Fine) denil prima l’uovo o la gallina. C’è del materiale nella realtà per cui gli ideali immateriali potrebbero percolarci dentro, a costruirlo però quel circuito cibernetico, smettendo di cercare invece il fil-rouge, la lepre rosacroce o il bianconiglio. Un circuito in cui siano i cavalieri del lavoro a correre come criceti sfracellandosi (almeno alcuni) negli ingranaggi di una nuova economia della reputazione costruita tutta per farli ancora più contenti che le loro mire sono insaziabili, come chiosa Chripto.
Non siamo per il conservatorismo anche perché, tra l’altro quando tutti gli insegnamenti del Dahrma – quindi tanta roba, vicino al compendio di quasi tutto – verranno dimenticati arriverà a maggio Maitreya e sarà la fine di tutte le guerre, carestie ed epidemie, vi sembra poco. Mitra mitra mitra, religione romana venuta dall’est con il suo Dio fratello di spara-Yuri-spara, Yuri spera, è morta la speranza? No, speriamo che vada tutto per il metaverso giusto. Per alcuni Maitreya non arriverà mai, per gli ottimisti comparirà a maggio. Secondo qualcuno Maitreya avrà Atreyu per compagno immaginario, per altri meno fantasy e più seri un riattivatore di Mitra, dio dei contratti. Forse sarà il fantasma di Maja Deren, la filmmamker sperimentale americana maestra della superimposion uccisa dalle anfetamine del Dr. Feelgood.
Anche ci fosse una Verità, perenne – e non c’è, ma facciamo che filosofeggiamo – questa è comunque emanazione interpretativa dell’idea di esseri incarnati che perennemente la rivitalizzano (s)fortunatamente snaturandola – dal semplice revival pedissequamente ossequioso della liturgia alla rivisitazione compiuta compitamente dal massone fondatore di altre 33.333 logge o più con più sprint avantgarde spiritico di un Osho occhio lungo o di un dinamitardo Hubbard Wormwood o di un sudaiolo Bikram – nei tempi ciclici di quel certo qual senso del moto ondoso di un andamento sinusoidale su cui si situano visionari e adepti, iniziati e reputati avanzi, ricercatori spiritati e avventurieri spiritosi, ciarlatani e magi, mistici e medium – unico caso in cui il medium è veramente messaggio, con buona pace di mcluhan&friends. È così dall’avanzo dei tempi, chiostro scaccia chiostro, campanilismo contro millenarismo come pure millenarismo campanilista. Dalla notte dei tempi si aspetta l’Apocalisse per farsi un lavaggio di coscienza, doccia Kneipp e riso integrale, ma attraverso la techne il lavaggio si divana in massaggio su poltrona in ecopelle in un non-luogo o un altro. Finora dai tempi del Mille e non più Mille, con la temuta Apocalisse è stato come quella di Pierino e il lupo, ma l’imprevisto può sbaragliare tutto. Per colpa del solito pazzo e per non voler capire che l’uomo difetta di immaginazione morale, cifra, secondo Günther Anders che L’uomo è antiquato.
Forse deve rimanere un po’ di tutto, in fondo l’eredità postmodernista pasticciata benché da molti vituperata – ok, siamo d’accordo che abbia rotto sia esteticamente sia moralmente – può essere servita da acceleratore per un nuovo funzionamento dell’inconscio collettivo, dove gli elementi sono stati tutti riconosciuti grazie all’esposizione mediatica e al sovraccarico informativo della società detta dell’informazione prima e della disinformazione poi, sistema in cui le immagini sono state padrone e matrigne soppiantatrici del testo ad un livello comunicativo mai stato così pervadente, impertinente e anche divertente. Prima della telepatia; interessante sapere se ci arriveremo biologicamente con un salto quantico o sarà ancora necessario il supporto di materiali rari oggetto di contese e scarsità. Tutti sono interessati a mettersi in salvo per sempre, alchimisti occidentali barocchi della Silicon Valley, anche i cinesi da sempre interessati solo al prolungamento della vita (quando non la stroncano per necessità di regime), ma un altro tipo di esoterismo, russo, il Cosmismo, aveva come meta il cielo per andarvi a resuscitare i morti, gli antenati e così gettò le basi per le avventure spaziali. L’artista Nik Spatari ci ha lasciato un’idea in quella direzione, che non sia l’antimateria l’insieme di tutte le anime? NO T!ME NO SPACE
E allora l’acceleratore di particelle e l’accelerazionismo ci porteranno al next level o meglio darsi al vorticismo poetico di un discorso antimaterialista perché antimaterico in quel senso appunto spirituale? Vorticismo per accelerare, centrifugo e centripeto, va bene tutto, personalmente meglio il centrifugato di funghi shitake e come long drink il Pimm’s col cetriolo e la ciliegia al maraschino nel taschino.
Sono tutti maledettamente lenti, a mancare è la pressione del “lavorare con lentezza”, che da sacrosanto inno alla resistenza allo sfruttamento (oggi declinato giustamente in sicurezza sul lavoro, anche se lì in fondo i problemi sono più d’ordine comunicativo e di fretta e approssimazione nonostante la lentezza) è diventato anche posa, a destra per le zavorre o tradizionaliste o per lo sguardo trascendente verso il perennialismo, cioè l’idea che ci sia una sapienza originaria a cui attenersi integralmente, un’idea che di certo non sprona alla velocità. Perenne può essere di contro l’idea che si ha di progresso e quindi la foga ad arrivare al sempre più nuovo. In Aurora Nietzsche comunque prega il lettore di leggerlo lentamente perché è ovvio che certe cose vengono bene solo se decantano. Innervosisce però quando si applica questo sguardo a tutto per tacita pigrizia. Il Perennialismo scade facilmente in una sorta di qualunquismo che erudizione snobismo e spocchia da esegeti sollevano dal livello uomo della strada; questo atteggiamento diventa da lord tutto high-brown e stiff upper lip, dove il “d’altronde è cosi” diventa “sempre-stato-così”; ma poi c’è il piano strada, con la sua università peculiare, quella da do-your-own-research, che è comprensibilmente allettante per il dilettante che poi è ognuno nel campo dell’altro, come notava splendidamente Pierre Bourdieu. In un mondo così sterilizzato e sporco, segregato e spalancato su piatti e panni da lavare, culla, sollazza, diverte e (in)forma l’omuncolo cibarsi di briciole di pseudo-verità con la mano rimasta libera o ri/(man)tenuta tale da algoritmi che aborre sebbene siano il suo unico efficace aiuto in sinergia con la miriade degli instradamenti algoritmici dei suoi compagni di merenda forniti di simil forma mentis, unica e sola possibilità di incontrare efficienza, unica cosa funzionante in sì tanto malfunzionamento generalizzato a cui veniamo socializzati e che sostituisce l’obsoleto Altro generalizzato ovvero l’agente del controllo sociale ancora umano.
Ad ogni modo, si tratta di visioni contrapposte di fronte alle quali ci viene da sorridere e dopo aver abbozzato una sintesi (con diversi fasi in cui la mescolanza degli elementi è a tratti ritmica o aritmica, per mescolare per bene, yin e yang, sapendo che ad ogni modo giri che la rigiri non è la mescola giusta e la mayonese fatta in casa può sempre impazzire), giochiamo la carta dell’Homo ludens di Johan Huinziga, per cui l’uomo crea e ricrea il proprio ambiente perennemente semplicemente giocando a vivere. Tale interpretazione ci sta soprattutto per il periodo che stiamo vivendo, un “Autunno del Postmoderno”, che come nell’Autunno del Medioevo dello stesso autore, uno studio delle forme di vita, del pensiero e dell’arte del nostro tempo, che vada oltre le riletture de Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler – lettura che va nel verso di un anticiclone africano, forse da cercare di leggere di traverso senza troppe indulgenze né plauso ma nemmeno scomunica – sembra poter offrire una formula oggi valida contro un’accelerazionismo che va bene come scossone ma che è troppo volgarmente schianto(s) – non ci fidiamo delle mire e dei deliri dei suoi aficionados, ci piace più nervosamente contemplarlo ma non agirlo perché è alla fine della fiera mero sintomo di sfinimento, aggressività da ultimo colpo di coda. La paura li ha ammansiti, a noi ci ha reso ribaldi. L’arguzia di Huinziga in quell’opera è aver capito che il formalismo della gentilezza tipica della fine del Medioevo e dell’epoca cavalleresca era il modo per contenere dal suo deflagrare la violenza della disperazione sociale, da fine d’epoca con la peste nera attorno (ricorda qualcosa? Covid e crisi già al netto delle prossime minacce virali da spillover che continuerà nella modalità tipica di un meccanismo cifra dello sfruttamento capitalistico della natura).
Per cui l’animo si ripiega su nostalgia e malinconia, in un clima di sogno. Questo non vuol dire che dovremo vivere il resto dei nostri giorni mesti, ma adesso invece di sclerare, riflettere ragazzi, leggere la realtà e lavorare per una nuove gioie vitali per accelerare verso un nuovo Rinascimento. Al momento preferiamo anche noi il sogno, sognare a occhi semi chiusi. Trataka e poi meditazione. Nel farlo di una società ne verranno fuori anche molti Memoria d’oltretomba alla Chateaubriand o Memorie dal sottosuolo alla Dostoevskij. Verrà comunque l’alba elettrica di un nuovo giorno elettrico. Intanto faremo come gli androidi, sogneremo pecore elettriche come gli androidi di Blade runner. Tanto tutto è Sa Ta Na Ma, otto sdraiato, ∞ Finalmente uno scacco matto all’Homo faber alla facciazza dell’Arbeit macht frei. Giocare è creazione d’ordine, assoluto e supremo ma temporaneo, situazionista ci fa presente Huinziga. Ordine cosmologico in terra, secondo rituali sempre nuovi, liberamente scelti – e con ciò si supera, aggiungiamo, anche il tradizionalismo insito nell’occultismo, opprimente. E si assurge col semplice gioco a qualcosa di più alto, non ordinario. Sganciandosi così dalla materialità, ma non dalla vita sociale, ludica, creativa, viva – che non vuol dire da stupidera, tutti i sistemi culturali sono ludici, l’economia, il diritto, la religione, della politica lo si era intuito perché fa già ridere ;-) la scienza, auto-organizzanti. Come nel gioco dell’Isha Krya. Inspira: “non sono il corpo; espira: “non sono nemmeno lo spirito”. Un po’ come Ulisse facendosi chiamare Nessuno da Polifemo. Anche fingersi una foglia morta può essere un gioco. Tra l’altro il gioco in Huinziga è anche poesia, fare dal nulla, quel nulla da cui si ricavano di volta in volta anche le regole.
E se la soluzione fosse davvero capire come coesistere con le macchine? Vogliamo invece continuare con il luddismo? Ci sono costate tanto, in termini utilitaristici non ha senso distruggerle ovvero in termini di economia politica classica che a sua volta ci è già costata tanto, ma anche perché magari stanno davvero sviluppando una coscienza progredita, quindi in termini (trans)umanistici pure non ha senso, anzi sarebbe un crimine. Il costo del capitale investito, umano troppo umano, guadagnerebbe di senso su un orizzonte di senso veramente al di là del bene e del male umani, dove macchine, dei intelligenti e coscienziosi, ci lascerebbero la nostra umanità e loro, novelli dei olimpici, capaci di emozioni umane, sarebbero l’incipit di una nuova mitologia, dove l’apollineo e il dionisiaco agirebbero più di concerto senza farsi fuori. Ma forse così si rimane lo stesso in una visione storicista.
Dovremmo decidere se perderci in fiabe, favole, storytelling, sequel, serie all’insegna del fakismo più spinto e magari ad un certo punto aggregante delle moltitudini o non uscire dal solco tracciato dall’anticapitalismo marxista, che comunque spiega ma con una lingua che ci ha reso sordi, senza inventare un nuovo Gesù-Gesù-aiutaci-tu dove la macchina è la Trinità – anche perché la triade non funziona, il terzo incomodo non piace, meglio la quadratura del cerchio, diceva Jung spiegando il mandala – o rinunciare alla coscienza e perderci nell’infinito già molto prima che l’universo esploda. Forse non solo accettare il virtuale ci toglie dall’incomodo della realtà, togliendoci di mezzo da un mondo che si rigenera solo se non ci siamo e la cui sortita è tuffarci nello stream virtuale, ricrearci con le macchine, sollazzarci con il coding. Può rimanere nel mondo reale chi ha volontà di rigenerarlo, di ripulirlo; per la stragande maggioranza che a queste istanze è impassibile che si scateni pure nel cyber, dove comunque si stabiliranno anche i combattenti più tosti ed idealisti che faranno vedere ologrammi di sorci verdi a chi sarà semplicemente troppo, nelle sue forze, un’inutile ameba o un parassita della realtà, virtuale s’intende.
Siccome siamo gentili e per finire di rispondere alla domanda, diciamo qualcosa riguardo la lunghezza di questo che è praticamente diventato un pamphlet, per cui chiediamo venia aggiungendo, così è se vi pare: We can’t help it, non ci possiamo fare niente, siamo adepti del realismo isterico.
THANKS FOR READING! (: (: (:
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ARTOLDO crypto (Wundersaar feat. Chripto)
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