Con la fine della guerra fredda anche l’ultimo dei normaloni dovrebbe aver notato che, giorno dopo giorno, qualcosa nell’offerta politica dell‘Occidente è cambiato.
Morta la “grande alternativa” muoiono poi tutte le grandi narrazioni e rimane solo un gran pastone liberal-progressista.
Si diffonde, più o meno gradualmente, il modello anglosassone: i partiti sono due (o, come da noi, “più di due”) ma la politica è una.
In tutto questo, mancando grandi narrazioni, cominciano a cambiare molte cose: prima scompaiono i militanti (che senso ha fare le quattro del mattino per far attacchinaggio se il tuo avversario ha la tua stessa offerta valoriale cambiata di poco?), poi scompaiono i partiti a livello locale (nascono comitati a 6 mesi dalle elezioni, poi vinte o perse, scompaiono per un lustro), poi i leader diventano “imprenditori politici”.
I partiti diventano oggi non strumenti per organizzare le richieste di segmenti mobilitati della società e portarle all’interno del potere, ma il contrario: strumenti per mantenere il consenso di un potere che procede assoluto e spedito nella direzione che preferisce.
L’imprenditore politico non ha una agenda, un set di valori: ascolta i sondaggi, vede cosa vuole sentirsi dire il pubblico, pondera con la storia del proprio brand ed elabora un messaggio per massimizzare il proprio consenso. Idealmente il messaggio può anche essere di qualunque tipo, anche perfettamente impolitico per non essere divisivo e raccogliere like come ci insegnano le note pastasciuttate salviniane.
La priorità è prendere i voti e spartirsi poltrone e prebende, poi si farà quel che si dovrà e si troverà il modo di far accettare i rospi al proprio elettorato.
Il sistema è maturo, la democrazia “funziona” quando nessun partito è interessato a prendere voti per “cambiare le cose”, ma al contrario afferma quel che serve per “prendere i voti”.
Sostanzialmente i partiti politici oggi sono intrinsecamente reazionari e puntellano un sistema osceno perché indicano e metabolizzano le istanze, anche più radicali, stemperandole e tranquillizzando i segmenti della società più disposti alla mobilitazione o meno rappresentati.
Non hanno un altro ruolo se non, nella migliore delle ipotesi, intercettare un dissenso e reimmetterlo nel sistema contribuendo alla sua legittimità. Dopotutto se il sistema divenisse troppo poco rappresentativo si correrebbe il rischio di rivolte, tensioni, conflitti, ma i partiti sono la valvola che regola la pressione sociale e la assorbono per quanto possibile e la sfogano nel mondo più anestetizzato possibile.
Per questa ragione la soluzione migliore è una prassi doppia, apparentemente contraddittoria, ma in realtà con una logica “di superamento”: occorre mobilitarsi e mobilitare, diffondere messaggi radicali, creare meme, siti, tormentoni, video, propagare idee radicali E ALLO STESSO TEMPO non votare, non fare politica mainstream, non nutrire il sistema permettendogli di cogliere da dove pesca il nostro dissenso, non lasciarglielo quantificare, non lasciarglielo capire. Se il sistema si nutre, per aggiustare il tiro, inquadrarti e disinnescarti, di informazioni, occorre creare una nebbia di guerra, un crogiuolo di meme
, battute, simboli, suggestioni che siano sostanzialmente inintelligibili razionalmente da fuori e, ad un certo livello, persino a noi. Un messaggio che sia contemporaneamente dirompente perché ultrapop
ed esoterico, ma così esoterico che lo sia anche a noi che lo trasmettiamo.
L’incomunicabilità come nuova comunicazione, prerazionale, magica, religiosa che non possa essere non solo metabolizzata dal sistema, ma neppure capita. Una nostalgia, una wave, per un futuro che non esiste ancora e ci stiamo brutalmente inventando. Un mito mobilitante che sia stavolta prima mobilitante e poi mito, prima inconscio e poi, forse, conscio:
La creazione di Eggregore che trascinino il pubblico con noi invece che nel Nulla delle scarpe Nike, Spritz slavati e “Green Pass perfavore”.