È diventato ormai un luogo comune equiparare l’istruzione al processo lavorativo, in particolare perché l’impiego di tempo e fatica sembrano essere fattori che accomunano lo studio al lavoro. Per la concezione piccolo borghese lavorare equivale a sputare sangue per portare a casa il salario
, certo anche lo studio richiede dedizione, studiare è una fatica bestia, un’attività solitaria e impegnativa che ci pone nella frustante situazione di partire da una consaputa ignoranza, senza alcuna certezza che alla fine qualcosa verrà appreso. In questo senso è comprensibile perché siamo soliti considerare le due attività specularmente, soprattutto in questo ultimo decennio in cui la scuola e l’università si sono trasformate nella succursale dell’azienda, volta alla creazione di una massa di piccoli imprenditori di sé stessi, pronti ad azzannare la vita per estrarne profitto.
Lavoro è innanzitutto produzione di valore di scambio
, questo la lezione marxiana ce l’ha insegnato bene: un lavoro che non produce valore di scambio non ha senso di esistere. Allora perché lo studio dovrebbe essere paragonato al lavoro se non produce nessun valore di scambio?
Un ragazzino al primo giorno di medie risponderebbe che tutta questa fatica un giorno verrà ripagata, che è costretto a rimanere seduto su una sedia per sei ore al giorno per una buona causa, che quelle sei ore sono un ottimo investimento sul suo futuro, d’altronde un’istruzione serve (è utile) proprio per costruirci come ottimi produttori di valore di scambio, ecco allora che assistiamo alla usurante selezione della materie scolastiche in ottica utilitaristica, via il latino, via la storia, via il tema libero, si all’informatica, sì agli stage, sì all’alternanza scuola lavoro…
La selezione dei saperi in base alla loro propedeuticità al mondo lavorativo restringe il campo della scienza escludendo dai percorsi formativi dei giovani la possibilità di entrare a contatto con una grande fetta di saperi, negando la possibilità di sviluppare passione per le branche del sapere che non sono immediatamente utilizzabili dall’estrazione di valore.
La sussunzione reale del sapere al meccanismo di capitale porta così al progressivo abbandono delle scienze che, nonostante siano state coltivate da secoli dall’umanità e facciano parte di diritto del panorama scientifico, non vengono più ritenute necessarie alla formazione dello studente e quindi sacrificabili.
Alla lunga il rischio è quello di determinare un’omologazione formativa degli studenti, che tenderà a ridurre lo spettro del sapere alle conoscenze e capacità richieste dal mercato, questo per i liberali potrà sembrare un grande traguardo: ottimizzazione del tempo di studio e massimizzazione dell’efficienza, ma che impatto avrà alla lunga per lo studente questa drammatica selezione? Il primo compito della scuola è di permettere che lo studente incontri più rami del sapere e possa così sviluppare le proprie inclinazioni e passioni, la scuola non deve dire allo studente cosa egli deve diventare ma deve fornirgli gli strumenti adeguati per permettergli di scegliere chi diventare, in questo senso siamo sicuri che la selezione disciplinare non limiterà la possibilità degli studenti di formarsi liberamente?
Credere al compito civile della scuola è reputarla all’altezza di fornire allo studente tutti gli strumenti per lo sviluppo della sua vita futura, una vita intesa come bios (βίος) e non mera zoé (ζωή). Entrambi i termini significano “vita”, oggi la differenza si è andata sfumando, ma per gli antichi greci era una distinzione determinante: quando volevano riferisti ad una mera vita biologica, caratterizzante tutti gli esseri viventi utilizzavano “zoè”, dovendo invece riferirsi alla propria vita di uomini utilizzavano “bios”, per indicare una vita degna di essere ricordata e di diventare una biografia. Ma ormai chi le scrive più le biografie? Oggi ha senso scrivere solo curriculum
, e cos’è il curriculum
se non un freddo elenco delle nostre capacità produttive? Una descrizione di caratteristiche di cui ci siamo impossessati superando prove di abilità e competenza, insomma un’esposizione di tutte quelle componenti che rendono la nostra una ζωή, una vita comparabile con quella di tutti gli altri esseri viventi, una “vita qua vivimus” con tutte le caratteristiche che ci rendono animali del tutto particolari, ma pur sempre animali. Non è un caso se da “zoé” deriva il termine zoologia, inteso come lo studio dell’animalità, l’esercizio del sapere su tutte le tipologie di specie da esporre negli zoo, da distinguere le une dalle altre tramite una targhetta posta davanti alla gabbia ad indicarne tutte le caratteristiche distintive, insomma nulla di diverso dal pezzo di carta che riempiamo con tutte le nostre competenze: B1, B2, C1, C2, stage, master, anno all’estero, soft skills…
nella speranza che ci qualifichi come possessori di qualifiche migliori rispetto a quelle del tizio seduto al nostro fianco, nella sala d’attesa del reclutamento personale.
Si potrebbe stare ore a chiedersi come siano riusciti ad ingabbiarci fin dalle scuole in un ambiente denso di competitività, gerarchizzando le nostre prestazioni su una scala di voti che esprimeva un massimo di dieci e un minimo di due, sicché già da piccoli potessimo abituarci a considerarci un minimo, un massimo o un intermedio. Il tutto sulla base del grado di affinità ad una norma prestabilita che è quella della produttività, dell’efficienza: sono riusciti così a formarci secondo un paradigma di “zoè umana” in cui la nostra unicità si trasforma in una posizione gerarchizzata nella piramide dell’efficienza, una scala in cui solo pochi posso essere i migliori, ma tutti devono sforzarsi e ambire ad esserlo, perché nel paradigma dell’efficienza produttiva la responsabilità del fallimento viene assegnata interamente all’individuo, essendo il suo ruolo sociale il frutto delle scelte fatta, anche in ambito formativo. In un sistema in cui l’adeguazione alla norma segna il discrimine tra chi è più o meno produttivo ecco che il deviante diventa non tanto un soggetto da punire, ma un soggetto da reintegrare nel paradigma produttivo, che necessità le migliori attenzioni da parte di psicologi e pedagoghi, comunità di recupero e centri per l’impiego. C’è quindi da chiedersi se sia possibile tornare a fare delle nostre vite delle biografie e non delle mere zoografie. La βίος è la “vita quam vivimus” ovvero qualitativamente vissuta, la vita che ci rende esseri irripetibili, indica il come viviamo e le qualità che ci rendono veramente irripetibili anche all’interno della specificità umana. Non tutti nell’antica Grecia erano degni di una biografia, per essere tali occorreva distinguersi dalla massa per atti eroici o spiritualmente elevati, occorreva una grandissima formazione e sacrificio per compiere atti biografici, coltivando conoscenze fuori dall’ordinario che permettessero di portare nuove visioni del mondo, atti rivoluzionari che permettevano all’uomo di superare la finitezza della morte e per passare all’immortalità della memoria storica.
Oggi per tornare a fare delle nostre vite delle biografie dobbiamo ripensare al nostro modo di stare in comune, perché non si è mai soli a scrivere una biografia, essa è il frutto dell’ incontro/scontro della nostra propria unicità con un’infinità di altre unicità, bisogna abbandonare l’uniformità che ci viene imposta dal paradigma produttivo della “zoé umana” per riscoprire le qualità, le passioni e i saperi che ci qualificano veramente come unici nella condivisione con l’altro diverso da noi. Nell’antica Grecia non esisteva il termine individuo, l’idea di una unicità isolata dalla comunanza, va quindi abbandonata l’idea dell’individualizzazione del sapere per abbracciare una prospettiva di condivisione su ogni piano.
Rompere la gabbia che ci limita a scelte di vita gerarchizzate da un impiego, rinunciando all’idea dello studio come mera propedeutica lavorativa dovrà essere il primo passo per tornare a studiare in un terreno scientifico libero e fertile, rimediando alla triste constatazione che sempre più giovani sono oggi costretti a rinunciare ad intraprendere dei cammini di studio per paura di un futuro da disoccupati, o che a scuola non hanno l’opportunità di ricevere neanche un minimo di saperi alternativi, perché qualcun altro per loro ha deciso fossero ambiti da scartare.
Continuando con questo approccio all’istruzione alla lunga sarà tutta la collettività a rimetterci, mentre l’impoverimento culturale avanzerà imperterrito, compiere questa selezione ci porterà a perdere una grandissima fetta di sapere, forse siamo ancora in tempo per invertire questa tendenza, ma nel mentre non possiamo ignorare come il drammatico taglio ai finanziamenti alla ricerca umanistica, il progressivo abbandono del latino
nei licei e la grandissima rilevanza dell’alternanza scuola-lavoro ci mettano di fronte alla triste constatazione che la selezione dei saperi è in atto, e sta progressivamente trasformando il diritto all’istruzione nel dovere alla formazione professionale.