Passeggiata

Passeggiata
Lettura boomer
Un viaggio mistico in una qualsiasi città...

Fanculo, usciamo.

Esco giù in strada, mi accendo una sigaretta.

Il fumo sale su nell’aria notturna e svanisce nella luce iridescente dei lampioni.

La finisco, poi mi incammino sotto i portici e inizio a osservarmi intorno. 

In fila: un’estetista cinese dove delle adolescenti pesantemente truccate si stanno facendo rifare le unghie mentre annoiate masticano gomme. Un’agenzia immobiliare. Un vecchio bar anni ’70 con l’insegna al neon mezza spenta e gli interni in legno, appese alle pareti delle coccarde e una foto del Milan vincitore della Champions nel 2007. Un’edicola con la vetrina sporca dalla quale si scorge il proprietario sonnecchioso dietro il bancone tra una miriade di quotidiani e magazine che ormai non legge più nessuno.

Nel frattempo le macchine sfrecciano nelle strade strette del centro storico. Alcune sono enormi. Un ciclista sta per essere messo sotto, quello impreca e fa un gestaccio al Land Rover che lo stava per travolgere, ma la macchina non rallenta un cazzo e procede a tutto gas per la sua strada.

Io continuo a camminare, le facciate dei villini e dei palazzi storici da poco riverniciati con i fondi del PNRR mi passano a fianco.

Questo posto puzza di vecchio. Trasuda vecchiume e antiquariato da ogni poro. Una bella bomboniera infiocchettata e tirata a lucido per turisti. Prodotto finale di una civiltà prosciugata di energie creative, appassita e in grado, alla meglio, di rispolverare le sue vecchie chincaglierie nei centri storici, o alla peggio di costruire inumane mostruosità nelle sue periferie.

Urbanisticamente l’Italia è ridotta a questo: sterili musei dalle facciate tirate a lucido per americani e cinesi nei suoi centri storici dai quali si dipana la periferia, una giungla urbana fatta di cemento, grigiume e asfalto scassato che circonda come una ciambella quel bel centro storico tirato a lucido.

Mi allontano progressivamente dal centro mentre i lampioni sopra di me passano gradualmente da un arancione caldo e avvolgente a sterili luci a led.

Nel frattempo penso alla storia architettonica di questo paese.

Per secoli vari comuni hanno sperimentato con forme architettoniche in parte simili tra loro e indubbiamente ‘italiane’ ma allo stesso tempo diverse, segno di quanto da quando mondo è mondo siamo campanilisti e un po’ in competizione tra noi. Questi esperimenti architettonici iniziarono in età medievale, quando si faceva la corsa tra famiglie nobili a chi ce l’aveva più lungo con la costruzione di torri spesso pericolanti (i grattacieli li abbiamo inventati noi eh). Poi, il rinascimento, l’esplosione e il trionfo dell’arte italiana e occidentale. Ridondante? Già detto mille volte? Sì. Ma cazzo, l’abbiamo fatto noi il rinascimento. Abbiamo iniettato lo spirito di Roma e Atene nell’arte cristiana, fino ad allora avvolta dagli sfondi dorati mistici delle icone. L’abbiamo fatto noi. Ci siamo macchiati di questo crimine. Abbiamo elevato l’arte cristiana ai massimi livelli dell’abilità tecnica, dando vita a capolavori ammirati in tutto il mondo. Non più santi coperti dalla testa ai piedi e svettanti su uno sfondo dorato, ma nudi corpi muscolosi e contorti con saette e tuoni in lontananza. Sì, l’abbiamo fatto noi. Le più altre vette dell’ingegno dei nostri antenati si sono macchiate di questo delizioso crimine, al di là di ogni giudizio moraleggiante. Forse abbiamo fatto bene, forse no. Ma come farebbero i chud americani a fare gli edit con tremila immagini al secondo e la scritta RETVRN in sovraimpressione senza il rinascimento? Quei reels non durerebbero neanche la metà.

Eppure, pur nell’esplosione rinascimentale che all’occhio non allenato potrebbe far apparire tutti gli edifici simili, abbiamo mantenuto le nostre caratteristiche locali. Due casi esempio: Venezia e Firenze. Il bizantinismo e l’eroismo. La dolce e marcia decadenza e la gagliardia irruenta – mare e terra. Le due città simbolo dell’arte italiana sono modelli perfetti per realizzare come la cultura e la storia di un luogo siano in grado di plasmarne l’urbanistica, che si fa portatrice plastica proprio della coscienza collettiva del luogo, modellandone e venendone modellata a sua volta in un ciclo che si autoalimenta. Da un lato Venezia, volta a oriente, a Costantinopoli, con le sue dolci curve gotiche e orientaleggianti, con le cupole a tratteggiare pennellate sui suoi tetti, con le facciate dei palazzi marce e scrostate, con la sua bellezza decadente celata dietro una maschera di carnevale e i ritmi calmi e placidi di una gondola che si trascina stanca in canaletti nascosti. Venezia, una città retta per secoli da un governo di anziani relativamente stabile, volta al mare – e il mare si sa, porta cosmopolitismo, spezie, mercanzie e un tiepido equilibrio fatto di trattati, accordi e compromessi. 

Dall’altro Firenze. La città del rinascimento per eccellenza. La città delle congiure dei Pazzi, degli assassinii, delle rivoluzioni, di Machiavelli e di Girolamo Savonarola che brucia al rogo le vanità. Una località sicura di sé, gagliarda, irruenta. I suoi palazzi squadrati e saldamente ancorati al terreno si impongono con robustezza esprimendo l’architettura di una città che ha combattuto con il sangue e con i denti per imporsi sui suoi vicini e ritagliarsi il suo piccolo regno di terra.

E poi avanti, ancora più in là, scivolando nei secoli, alternando tra fasi di appiattimento e rinnovata esplosione artistica tra rococò, liberty e neoclassicismo fino alla storia recente, quando il fascio volle recuperare il mito di Roma e farci sentire tutti ugualmente “italiani” facendo approdare anche nella provincia più sperduta un edificio amministrativo del ventennio, con quelle forme impositive, massicce, con quel marmo di un bianco accecante e con lo sguardo a metà tra le forme plastiche dell’antica Roma e quelle fredde e spigolose del razionalismo e della modernità. Quelle cittadine del ventennio che punteggiano le campagne dell’Agro Pontino, impregnate di una metafisica malinconica che quasi le fa sembrare uscite da un quadro di de Chirico, funsero da ponte tra il prima e il dopo, con un occhio al passato ed un piede nella modernità. Con le loro facciate semplici e gli angoli squadrati costituirono un tentativo di omologazione del paese. 

Ma Mussolini sarebbe impallidito di fronte al livello di omologazione che il paese avrebbe raggiunto dopo il ’45. Quell’omologazione di cui parlò Pasolini fatta di società dei consumi e appiattimento delle realtà locali, che urbanisticamente prese la forma di abusi edilizi, palazzi alveare, e periferie di cemento che dipanano i loro tentacoli come piovre nelle campagne.

Interrompo le mie elucubrazioni. 

Sono davanti ad un kebabbaro. L’odore della carne riempie le radici. All’esterno l’insegna luminosa proclama a caratteri cubitali ISTANBUL KEBAP. Di fronte alla vetrina, appollaiato sul sellino della bici elettrica, un rider aspetta di ritirare un ordine. È tutto bardato, dalla testa ai piedi. A malapena si riescono a scorgere gli occhi dalla fessura tra il casco e lo scaldacollo tirato fin sopra il naso. Dall’altoparlante del telefono escono a tutto volume aliene litanie dravidiche. Porterà un kebab e delle patatine gommose ad un ultimo uomo nietzscheano troppo pigro per cucinare dopo essersi segato tutto il giorno su OnlyFans, rinchiuso in una stanzetta di merda in affitto per cui spende metà del suo stipendio mensile da stagista.

Passo oltre. Ormai i palazzi intorno non devono avere più di una sessantina d’anni. Le luci accese dalle finestre degli alveari sembra mi osservino mentre incappucciato scivolo tra le strade come un sassolino in un ruscello. 

Raggiungo la fermata dell’autobus. Mi siedo sulla panchina della pensilina. Le luci bianche da obitorio quasi mi accecano. 

Ecco il bus, ci salgo.

Mi sistemo in un angolo in fondo. 

Un maranza con il giubbino Supreme tarocco mi guarda in cagnesco dopo aver incrociato il mio sguardo. Lo ignoro. Lui torna a guardare video su TikTok su come rivendere Nike.

Dopo un paio di fermate scendo. 

Sono quasi arrivato. 

I cancelli del parco sono chiusi ma conosco un punto dove il muretto è più basso e si può scavalcare con facilità. 

Corro su per la collina mentre gli steli d’erba di inizio primavera mi solleticano le caviglie. Le fronde degli alberi si aprono sulla radura. Eccoci. Sono in cima. 

Mi appollaio sull’unica panchina e mi accendo un’altra sigaretta. 

Davanti a me si stende la città. In lontananza sbrilluccicano i grattacieli di qualche corporazione.

Qualcuno ha detto che le città moderne sono state costruite da vampiri perché solo di notte diventano belle.

Ripenso a quelle piccole città medievali. A cosa i nostri antenati furono in grado di costruire con un decimo della popolazione. All’orgoglio che dovevano aver provato il giorno del completamento della cattedrale in centro città, o della cupola del palazzo del governo, o della torre civica. 

Mi chiedo chi sarebbe disposto a dedicare così tanto tempo ed energie collettive per progetti del genere in questa città, dove sembra che siamo tutti estranei, tutti con sogni ed aspirazioni diverse che ci guardiamo in cagnesco mentre sguazziamo nel fango, in questa idrovora che ti prende e ti risputa.

Mi chiedo se me ne dovrei andare, come fecero alcuni alla fine dell’Impero Romano quando si resero conto dell’andazzo delle cose.

Fuggi dalla città, fuggi dalla città, fuggi dalla città… una litania che mormoro sottovoce. Chiudo gli occhi. Li riapro. Il sole splende e sono in un campo fiorito.

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