Un’epoca di convalescenza?
Paradossalmente del periodo denominato come Repubblica di Weimar oggi ancora ci ricordiamo di una fioritura di pensiero filosofico e speculazione artistica di enorme influenza per l’età contemporanea, essenzialmente una scommessa nell’ottica di un paese uscito sconfitto e sconfessato ideologicamente e politicamente dalla Grande guerra e costretto a sopportare poi due decenni di crescente ansia economica e instabilità politica destinati a concludersi in un’altra catastrofe.
Dai capolavori e dei filoni più memorabili del periodo ci rimangono infatti, non solo nella conoscenza specifica ma soprattutto nel gotha dell’immaginario popolare e della cultura di massa, una sensazione stereotipata di profondo malessere; l’arte tedesca dell’epoca s’incarna, nei differenti medium, nella corrente regina dell’Espressionismo tedesco
, categoria nata fra la fine del diciannovesimo e inizio del ventesimo secolo in reazione artistica ad alcune delle norme dominanti dei decenni precedenti, quali l’Impressionismo, il Naturalismo svuotato di vitalità e in parte l’ancor più spento Neoclassicismo wincklemanniano; politicamente questo slancio artistico si percepiva come reazione alla supposta egemonia culturale della borghesia guglielmina tanto disprezzata da Nietzsche, appunto uno dei padrini spirituali di questo movimento estetico.
L’esposizione della decadenza della materia è perfettamente funzionale alle ambizioni spirituali del movimento espressionista: la ricerca di un nuovo trionfo spirituale che trascendesse le insicurezze ormai secolari legate al Cristianesimo poteva anche manifestarsi in una caricatura feroce della società tedesca e delle sue classi medie e alte che ancora vantavano pretese di moralità durante gli anni dello stolido Reich guglielmino e quelli più intriganti della Repubblica di Weimar;
Il desiderio espressionista di rivelare una realtà invisibile agli occhi (noumeno, cosa in sé, Assoluto, Spirito, anelito che potremmo indicare come squisitamente tedesco) si accorda perfettamente con l’accusa spietata e moraleggiante nei confronti delle menzogne del Reich borghese, non solo per la necessità di una ricerca della realtà
noumenica spirituale contro le bugie quotidiane, in virtù di una sensibilità ancora irrimediabilmente cristiana nonostante l’influenza pesante delle ermeneutiche di Schopenhauer e Nietzsche (o forse proprio in virtù di una contraddittoria sensibilità propria anche dei due filosofi?)
La necessità di scioccare e di scuotere il pubblico in assoluto contrasto col classicismo è rito educatorio e rivelatorio, se non religioso almeno mistico, e deve per forza porsi come aggressiva e irrazionale in risposta alle storture percepite nella parte avversa; le modalità estetiche e rappresentative di questo irrazionalismo sono state prima avversate ma poi riciclate dalla politica e dalla propaganda
, che si sono appropriate della stilizzazione e della surreale esagerazione espressioniste.
Per quanto riguarda le idee, la critica sociale nei confronti della partitocrazia corrotta della Repubblica di Weimar fu condivisa prima dalla Rivoluzione Conservatrice e poi fatta propria dal compromesso nazionalsocialista che, sebbene fra gli appropriatori parziali dell’estetica espressionista, sbatterà una buona parte di esso nel ripostiglio dell’arte degenerata
, valorizzando il ritorno manieristico a suggestioni neoclassiche del secolo precedente e al bucolico puro; impossibile negare l’appropriazione del perturbante espressionista mentre il regime e i suoi arbitri di eleganza affermavano ipocritamente di preferire una sublimazione diversa della malattia e della sofferenza, compresa quella dei guerrieri.
Non deve stupire che oggi ricordiamo fra i maggiori artisti dell’Espressionismo di Weimar personaggi che hanno lavorato nel campo della satira politica, quali Otto Dix e George Grosz; il primo più legato alla dimensione da incubo del combattentismo e concentrato sulla condizione dei reduci, il secondo più interessato in senso autenticamente marxista al conflitto di classi e categorie della società tedesca.
Se i personaggi di Otto Dix appaiono simili a marionette e attrezzi con espressioni trasognanti oppure beffarde, inquietanti come certe maschere cinematografiche, visibile soprattutto in lavori come Così Fan tutte (1921) e il ritratto di Paul F. Schmidt (1921); nei lavori di Grosz invece la deformità acquista una fattura disgustosamente più dettagliata, più organica, tanto da sfociare nel demoniaco boschiano di caotici paesaggi, come nel suo pauroso Metropolis (1916).
Curioso notare come l’espressione del sacerdote nei Pilastri della società non sia così differente da quella delle donnine facili disegnate dallo stesso Grosz e pure da Dix.
Il milite affranto e la donna allegra
Le due grandi maschere della corruzione e della malattia di Weimar sono infatti la prostituta e il reduce: se la prima categoria può ancora risultare attraente e la sua corruzione trasuda come orripilante affettazione, nel secondo caso la malattia è evidente come mutilazione e privazione, spingendo non alla repulsione morale come con la donna di malaffare, ma alla repulsione fisica e alla pietà
; i due sono proprio rappresentati assieme nel disegno della Prostituta e del Disabile di guerra – due vittime del capitalismo
(1923) di Dix.
Nell’opera di Otto Dix, i reduci mutilati appaiono come dei balocchi rotti e tristi, come nella Strada di Praga (1920) dei soldatini di stagno o legno in contrasto stridente con le immagini della propaganda militare ufficiale e molto più diffusa prima e durante la Grande Guerra
; i reduci, come il Venditore di Fiammiferi (1920) sono abbandonati a se stessi, traditi da chi li voleva usare e ora rappresentano la negazione degli ideali che dovevano sostenere e incarnare; purtroppo la corruzione del reduce di Guerra non è solo fisica, ma anche mentale, come si deduce dagli sguardi smarriti che chiedono aiuto silenziosamente.
La prostituta è il riflesso del Soldato: la sua corruzione non è legata alle delusioni della Grande Guerra ma è un’autentica devianza, che si appalesa maggiormente durante il decennio successivo come una tumefazione generata dalla corruzione della società tedesca; la sua malattia non appare appunto nella forma della mutilazione e dell’aridità, ma in una sorta di rubicondo turgore combinato a una paffutezza molle e decadente.
Ancora, se il reduce dimostra nella sua condizione una sincerità apocalittica riguardo la condizione umana invece la prostituta incarna l’inganno, coi sorrisi falsi e il trucco pesante che nasconde segni di corruzione come occhiaie e escoriazioni, particolarmente evidente nelle sinistre Prostitute di Dix del 1923; i vestiti sgargianti sono una versione più smargiassa degli abiti alla moda delle signorine per bene e qui si insinua riguardo l’ambiguità fra donna borghese e donna lavoratrice prostituta e sulla natura stessa del concetto di meretricio, come suggerito in Bellezza mi sei molto cara (1919) di Grosz.
Il reduce atterrisce e repelle ma anche angoscia perché come uno scheletro da unmemento mori
ricorda la verità della morte e della malattia oltre le menzogne del romanticismo guerriero; la prostituta è una rafflesia che attrae col profumo dolciastro della propria putrefazione e rivela come la contraddizione mortale dellaRepubblica di Weimar
, contraddizione che si realizza come malattia sociale destinata a un decorso disastroso; da una parte mutilazione e aridità, dall’altra tumefazione che si tramuta in decomposizione e marcescenza colma di gas esplosivi.
Certamente la stessa prostituta non può sfuggire allo stesso processo di sottomissione che la accomuna ad altre figure femminili; costretta a rimanere comunque vittima del ricco borghese
, mostruoso amministratore di un serraglio dove le giovani donne di buona famiglia sono carne da macello esattamente come le prostitute.
Veterano e Prostituta paradossalmente sono impegnate su un fronte di combattimento a doppio fronte concernente il peggio della natura umana, come operai
della guerra la cui identità diviene totalmente asservita alla loro funzione da tramutarli in maschere disumane; questa è la loro similitudine, la loro affinità maggiore: la disumanizzazione legata al loro ruolo di devianti.
Il senso finale oltre il ribrezzo o il disprezzo rimane quello di una grande tragedia dove è difficile condannare per via dell’incredibile sofferenza fisica e mentale che s’intravede ovunque: l’apice è rappresentato nel Suicidio (1916) di Grosz, dove una prostituta non può che osservare impotente e malinconica il cadavere di due defenestrati; alle sue spalle aspetta sornione forse un cliente borghese, che potremmo come detto prima individuare come simbolo del potere che coordina questo olocausto.
I cadaveri che governano la società
Mentre i cittadini soffrono, la società sembra governata da individui che hanno superato la fase della malattia e ora sembrano ritornati come cadaveri ambulanti: i banchieri, i militari e persino gli squadristi dei capi di Grosz sono slavati e molli come corpi di affogati, le smorfie del volto indistinguibili dal rigor mortis.
E’ impossibile non riconsiderare il già citato le Colonne della Società (1926), dove i rappresentanti dei grandi ordini sembrano voler prepotentemente legiferare come Draconi caricaturali su un paesaggio che dalla finestra s’intravede come apocalittico, fuori controllo.
L’enorme massa di vignette e schizzi di George Grosz ha la ripetitività stilistica di un cartone animato con tante immagini ricorrenti da storyboard: rivediamo lavoratori e veterani dagli occhi spenti, donne dallo sguardo spiritato, impiegati e dirigenti gonfi simili a suini.
Non che nel caso di Dix le cose siano molto migliori, poiché se nella sua ritrattistica i personaggi della borghesia tedesca non sembrano certo pupazzetti di Hanna & Barbera, però continuano a sembrare manichini e marionette di legno quasi, con qualcosa di indefinibilmente distorto e irreale nella resa dei tratti facciali; c’è una componente di presa in giro e ci si può interrogare di quanto i soggetti siano stati consapevoli di tale traduzione artistico-estetica.
Oltre la satira e la ritrattistica, la diagnosi della malattia weimariana prosegue sullo schermo d’argento, che proprio durante gli anni della Repubblica di Weimar si afferma come filone artistico e fenomeno commerciale di rilevanza globale.
Ombre sulla celluloide
Il cinema tedesco del primo dopoguerra è considerato assieme ad altri periodi come il Neorealismo e la nuova Hollywood uno dei momenti più alti dell’intera settima arte, ma anche qui vi troviamo prepotentemente il tema della corruzione rappresentato con immagini oscene e caricaturali.
Non è possibile esimersi dal citare il Nosferatu di Murnau, capolavoro segnato da sfortunate disavventure giudiziarie.
Il mostro del film è passato alla storia proprio perché non era una semplice trasposizione del conte Dracula del romanzo di Stoker (quel lusso toccherà a Tod Browning, che se ne intendeva pure lui di diversità fisica) bensì una rielaborazione completamente nuova e diversamente fedele ai miti tradizionali del vampiro.
Il Conte Orlock, invece di attaccare l’Impero Britannico, se la prende con la tranquilla società tedesca di metà ottocento: non è un fascinoso marcantonio come l’originale Dracula, bensì un omino nervoso e quasi comico che non sembrerebbe fuori posto in un disegno di Dix, con tratti chiaramente murini che invece di sedurre sembra più capace di carpire tramite una bizzarra forma di intimidazione ipnotica; più che un cospiratore, tutto intento a discutere di compravendita immobiliare, costruirsi da solo la carrozza e a portarsi la bara in spalla, appare come un immigrato imbranato intento in una improbabile scalata sociale.
Anziché essere annunciato da familiari pipistrelli e lupi, il suo animale totem è il ratto e la corruzione che porta nella città prima che con la vampirizzazione si manifesta con una epidemia misteriosa e la follia di un impiegato che si tramuta in famiglio del vampiro; ripulito di ogni aspetto sensuale presente nel modello di Stoker, Orlock semina solo raccapriccio e deprivazione di energie come una piaga semovente, incarnando la malattia pura.
La malattia torna prepotentemente a farsi notare in M di Frizt Lang, dove non abbiamo personaggi deformi nel make up ma resi tali dalla situazioni grottesche e dalle costruzioni della regia: i cittadini portati all’isteria e i biscazzieri e tagliagole tramutati in improbabili giustizieri sono già caricature senza bisogno di make up avveniristici ma solo grazie alla regia e alla fotografia.
Ma la scena viene rubata dalla magistrale maschera di Peter Lorre, con i suoi acquosi occhi a palla che fuoriescono dalle orbite quando il povero assassino non riesce a sfuggire ai suoi inseguitori e ai suoi demoni, incarnazione perfetta degli omini tondeggianti di Grosz; egli spiega la sua malattia invocando una forza terribile che lo avvince:
È una possessione demoniaca o è qualcos’altro che genera la malattia psicologica di questo povero borghesotto?
Ripensando alle radici spirituali dell’Espressionismo, si potrebbe osservare che l’enfasi sulla manifestazione fisica della malattia non è altro che un ulteriore transfert per l’inammissibile paura nei confronti dell’ospite inquietante e di come esso giochi crudele col nostro inscrutabile essenziale interiore.
Bibliografia di riferimento e consultazione
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