Qualche pomeriggio fa, in piena sessione, ho avuto la poco edificante idea di spararmi l’ultimo film di PABLO VIRZÌ
: Un altro Ferragosto
. Invero ormai guardo pochi film, e quelli che guardo sono spesso leggeri, giusto per buttare voti in più su letterboxd e rate your music.
Il mio modo che ho di fruire del cinema a casa è zoomerismo militante: scarico roba, non la guardo, rispulcio su VLC i soliti film, vado avanti e indietro con le scene, scorporo la trama, spesso mentre guardo faccio altro, o infilo gli auricolari wireless e giro per casa, nel mentre studio perfino, insomma brainrot in scioltezza.
E fin qui direi che Walter Benjamin ci aveva preso in pieno con la storia della riproducibilità tecnica.
Non ho alcun rispetto per quest’arte, che tra l’altro mi interesserebbe anche fare, ma davanti all’incapacità del cinema odierno di tenerci incollati allo schermo strillerei un sonoro GODO
: se un film vuole la nostra attenzione se la deve guadagnare.
Gli zoomer sono spettatori esigenti, certo non nel modo classico di esserlo: se bisogna fruire di schifezze che almeno queste siano confezionate meglio di quelle pescabili su TikTok, Instagram ecc…Veniamo al problema:
il film di Virzì nonostante sia, per ogni minimo particolare, ciò che detesto del cinema, della vita, di questo paese dove resto solo per il brivido della frode fiscale – che, modestamente, commetto -, mi ha tenuto incollato per due ore.
Forse perché incarna, a suo modo, un esempio di so bad, so good
, forse perché sono scemo io (sicurissimo), forse perché è metacinema, come lo è tutta la commedia all’italiana
prodotta dagli anni 80 ad oggi.
La commedia all’italiana è un genere ormai impossibile (PERCHE’ NON C’E’ UN CAZZO DA RIDERE – non mi fate più citare Boris, non sono un hipster dem), e proprio per questo reiterato, tenuto in vita fino all’esasperazione. Da essere il genere battezzato dai democristiani per affossare il neorealismo e far obliare agli italiani del dopoguerra di essere ai piedi di Cristo, è diventato esso stesso neorealismo ma ad un livello oserei dire: METACINEMATOGRAFICO
.
Ma guardiamolo da vicino questo film:
non voglio parlare dei particolari; pertanto, ne parlerò come se chi mi legge lo avesse visto, ma anche se così non fosse l’laura alla base è la stessa di un altro generico film italiano prodotto negli ultimi 15 anni.
Innanzitutto parliamo di un film corale con personaggi che più che essere tali sono macchiette.
Quel poco di trama è praticamente un ricalco del primo film uscito 28 anni fa. L’intera vicenda è sostenuta da un impianto ostinatamente dicotomico di ogni ambito della vita collettiva, di ogni valore politico che si cerca goffamente di trasmettere.
Quelli de destra? Gente cafona e ignorante, ma del popolo.
Quelli de sinistra? Gente acculturata, ma inetta sotto ogni altro punto di vista.
Il tutto segue il filo logico freudiano di soli accumuli di tensione tra personaggi e successiva esplosione, fino al tarallucci e vino
tanto odiato quanto riproposto, passando dai baci random agli innamoramenti boomeristici. Invero, l’orrore è dato proprio da questo “macchiettismo” ostinato. Zero sfaccettature: o semo ignoranti de destra, o semo intellettuali di sinistra , ma alla fine SEMO TUTTI ROMANI SIGNO, QUINNI VOLEMOSE BBBBENE.
Noto però un particolare non da poco, forse involontario: i personaggi-macchietta di sinistra si presentano come ossi duri, inamovibili dai loro valori, MA solo quando sono in gruppo: una volta sparpagliati sono generalmente infimi tanto quanto i loro antagonisti.
In questo film, a differenza del capitolo precedente, neanche si cucca dato che sono tutti vecchi e i giovani sono a loro volta dei vecchi travestiti da giovani. E poi i vari elementi telefonatissimi: il figlio arricchito del comunista espatriato in America e gay, l’arrivista che è anche ‘npo’ fascista, la più classica delle influencer che non sa niente di niente e che viene candidata al parlamento, romani ovunque (ribadiamo), i carabinieri che, ovviamente, sono dalla parte di quelli di destra.
Ma vi sono anche elementi onirici: il primo sicuramente il fatto che gente di destra vada a Ventotene e non a Ponza o a Formentera: poi il figlio che – che cucciolino – per non incasinare la dichiarazione dei redditi ai genitori comunisti – aspetta che piango – decide di regalare 100k di titoli a un amico; i colpi apoplettici di Silvio Orlando che immagina a più riprese di ritrovarsi con antifascisti vari e con i firmatari del manifesto di Ventotene. Ma tanto altro: come il discorso di Renzi, che ha rottamato tra i tanti anche il nostro Silvione Orlando, e che l’Unità è stata chiusa…
Perché? Perché sì: in un film ambientato nel 2023 che ricopre sì e no una settimana di vita di alcuni personaggi, è plausibilissimo che si parli di una cosa accaduta 10 anni fa.
È il solito cruccio dei registi italiani: darci un contesto in modo coatto, con forzature, quasi fossimo tutti ‘mbecilli.
Ma chi ziopera parla al mare di Renzi? Boh, vabbè…
Si percepisce ovunque un pervicace desiderio di parlare dell’attualità, ma allo stesso tempo questa viene schifata e rigettata in ogni scena e con ogni dialogo.
Ora, giacché l’arida attualità è anche merito delle varie messe in pratica dell’ideologia di registi, sceneggiatori, scrittori e forse anche attori, questa stessa viene frammentata e selezionata. Ciò che viene esibito è stato selezionato in modo chirurgico: il risultato è un prodotto amatoriale, poco sfaccettato, i personaggi sono bianchi o neri.
Virzì, per ovviare a questo problema, come tanti altri prova sempre a giocarsi la carta autocritica sul piano dei rapporti. Per cui quelli di sinistra hanno ragione ideologicamente ma purtroppo, poverini bisogna capirli, non sanno avere dei rapporti sani. Meglio mi sento: se il film è già macchiettistico, con questa scusa dei rapporti mi viene solo voglia di incazzarmi.
Apriamo una parentesi: sono abbastanza convinto che il Dottor Silvio Orlando, dagli anni 90 circa, non attenda altro che un film in cui poter interpretare il ruolo di Kapò, se non proprio di Colonnello delle SS.
Si sarà scassato la più nazionalpopolare delle uallere a partecipare a questi film incentrati moralisticamente sul senso civico.
Noi della redazione siamo indecisi se scrivere la sceneggiatura per un film sulla NAVE AMERIGO VESPUCCI
(come ben sai: la più bella del mondo) o sulla nevicata dell’85: MITI
imprescindibili della generazione che ora detiene il potere in questa sciagurata provincia dell’Impero Britannico (perché non americano? ne parleremo…)
Ma proprio per questo io dico che Un altro Ferragosto
è metacinematografico, e forse anche più. E questo non tanto per i contenuti: , infatti, a partire propriamente dal suo confezionamento, siamo in presenza di un’opera che, assieme ad altri capisaldi del cinema italiano odierno, ci da l’ennesima occasione per parlare del sistema Italia.
Questo magico paese, che proprio come un film del cinema nazional popolare, e nel nostro caso specificatamente VELTRONIANO
, è un Paese di sbandati ideologizzati fino al midollo, in ciabatte e calzini, coinvolti in continui flashback nostalgici.
Non a caso, nel finale, dopo aver fatto il brontolone con la famiglia anche in punto di morte e dopo aver costretto il figlio a sentirsi in colpa per aver fatto due lire (io lo avrei fatto sentire in colpa per un altro motivo, ma non ci provi signor DIGOS
), Silvio Orlando ha una NDE
in cui vede i COMPAGNI
che stanno lasciando Ventotene per andare a fare la lotta partigiana. Lui si imbarca con loro ma nella realtà è già stato caricato sul furgone del Marco Cappato Tour. A questo punto, in quanto spettatore con 200 di IQ, vengo colto dalla sensazione che il finale non sia stato neanche scritto. Perché si capisce perfettamente che quei valori (di cui sia chiaro a me frega meno di zero) propinati dal secondo Silvio d’Italia, siano MORTI
, destinati a MORIRE
(GODO)
come e con il protagonista.
L’Italia stessa è un paese che muore, vecchio e in totale crisi demografica, che forse deve morire per lasciare spazio a qualcos’altro: il suo cinema ricalca l’intento accelerazionista.
Il cinema italiano cosa potrebbe rappresentare in questa fase?
Volentieri rispondo: è l’equivalente per una cultura nazionale, del cervello di un morente che 7 minuti prima della morte, rilascia DMT per ripercorrere gli istanti significativi della vita. Mi pare un paragone che funzioni.
Ne ho citato uno, così come ne potevo citare altri, ma il motivo per cui riesco a guardare questi FIRMS
è lapalissiano: non richiedono impegno.
Sarò sincero: CODESTE OPERE NON TI AMMORBANO COME FAREBBE UN QUALSIASI FILM D’AUTORE VISTO SU UNO SCHERMO PICCOLISSIMO
, dopotutto non mi sto sparando un film di 8h con sottotitoli in russo. Annullando il super-io cinefilo/estetico riesco a fruire tranquillamente delle corbellerie che ci propina il cinema italiano: video dei diciottesimi fatti coi milioni.
Questo processo di fruizione cosciente di ciò che è scadente e successiva attivazione (solo post-visione), di quello stesso super-io dell’estetica, che prima di premere play si era annullato, io lo definisco con una parola: CIVILTÀ
.
Io sono cosciente, anche se ne ricavo dopamina, che la roba che sto guardando è una schifezza.
La sottile vergogna per aver fruito di questa roba, senza neanche avviare una volta subway surfer
, attiva il senso critico, mi permette di analizzare tutto ciò che c’è di sbagliato nel materiale artistico che pervade l’industria culturale contemporanea.
È palesemente un effetto so bad soo good,
ed è forse ciò che mi fa credere che le mie velleità artistiche in questo settore non siano poi così tanto campate in aria: sporcarsi gli occhi, e in un certo senso goderne in modo cosciente, è forse un grande passo per poter entrare nell’ambiente dell’arte che conta.
(COPING)
Questo meccanismo lo attiviamo in pochi, noi pochi tfw too intelligent people
. Il problema sussiste quando una pletora più o meno vasta di altre persone non lo fa per niente. Non più problema, ma distillata tragedia è invece pensare che non lo facciano neanche quelle personalità di filtro che permettono alla roba prodotta di passare per i canali della distribuzione.
È comprensibile che qui sopra io non abbia citato la gente che scrive, dirige e produce materialmente i filmettini, i cosiddetti addetti ai lavori.
Siamo consci di quanto l’industria cinematografica ‘tajana sia un’oligarchia, un clan (Castellitto ha fatto del metacinema a tal proposito), un ambiente romanissimo, una psyop per costringere tutta la popolazione ad essere informata sulle vie, i quartieri, i personaggi, i criminali de Roma nostra.
Credo che ormai anche i romani si siano abbastanza scassati le gonadi di essere rappresentati come cafoni. Ma non è certo l’accentramento di potere la causa della scarsa qualità: il cinema italiano è sempre stato un’oligarchia. E il problema, DICIAMOLO
, non sono di per sé le oligarchie. Il problema sono le oligarchie che non funzionano
, e che quando se ne accorgono non si accontentano di contare i soldi astraendo dalla vita collettiva e culturale, ma che anzi pretendono di fare la morale, cantarsele, suonarsele, addirittura fare autocritica.
Problema, se posso permettermi, è chi non adopera la ghigliottina quando è il momento.
Noi spettatori, noi zoomerini dalla corteccia prefrontale più fragile di un tarassaco.
Ma alla fine il progresso non è sempre un male: così come ci rivela il finale di Un altro Ferragosto, è la stessa classe dirigente boomer che ha deciso di caricarsi AUTONOMAMENTE
(figurativamente o meno) sul bus del Cappato Tour.