Cosa è rimasto del boom economico qui a Belluno? Niente!
“Eravamo dalle parti di Longarone, al limite dell'area di riconoscimento della minoranza linguistica, quando il clinto e il pastin cominciarono a fare effetto. Ricordo che dissi qualcosa come: "Mi sento la testa un tantino leggera; magari potresti guidare tu..." E immediatamente dopo ci fu un terrificante ruggito tutt'intorno a noi e il ciclo si riempì di enormi Veneziani strillanti in picchiata sulla nostra macchina, coi loro zainetti tecnici, le loro racchette e il siero antivipera, e la nostra Panda, che filava a centosessanta all'ora verso Santo Stefano di Cadore, aveva la lancetta della temperatura sul rosso. E una voce gridava: "Santiddio! Cosa cazzo sono questi animali?" Poi, tornò la calma."
Di recente, io e i miei amici, una tranquilla compagnia di ragazzi di provincia, abbiamo preso la passione del biliardo. Non siamo diventati dei campioni, per carità, semplicemente invece di alcolizzarci al bar dei cinesi ci alcolizziamo al club del biliardo.
Parlando con mio padre, nato nel ‘70, raccontandogli le mie fenomenali (non) buche, se n’è uscito con una considerazione che mi ha fatto molto riflettere. Mi ha detto che i giovani di provincia, inizialmente alienati rispetto alle generazioni precedenti, si stanno man mano riconnettendo e trasformando in come loro erano alla nostra età.
E per quanto mi urti anche solo dover considerare le parole di un maledettissimo boomer (figuriamoci assomigliargli) devo ammettere che ha assolutamente ragione. Noi zoomer (forse escludendo gli abitanti delle grandi città, dove le differenze generazionali si sentono meno in quanto il clima è più misto) stiamo tornando agli anni ‘70. Soprattutto per una abitudine particolare.
L’anno scorso, mentre parlavo con Alessandra, una abitante di Candide, la località di montagna che da anni frequento per le mie vacanze, e dove i miei nonni hanno una casetta, della morte di un ragazzo che conoscevo di vista, di qualche anno più vecchio di me, che sono del '04. Non ci sarebbe stato nulla di strano, se non per la prematurità della scomparsa, finché non mi è stata detta la causa. Overdose.
Candide è bella, ma bella davvero. Incastonata nella parte meridionale della Val Comelico, parte del comune di Comelico Superiore, conta poche anime, principalmente vecchi, e qualche sbarbato, che per qualche strano motivo non è emigrato come qualsiasi suo coetaneo normale.
D’estate si popola di Veneziani in vacanza, ma rimane molto poco turistica, e molto piacevole. È bello andare al bar, farsi una partita a morra, andare a passeggio e respirare un po’ d’aria buona, fare un pic-nic.
A febbraio, il carnevale di Santa Apollonia a Casamazzagno, la frazione di fianco, e poi in stagione andare a cercar funghi o sulla neve, che fortunatamente qui arriva ancora in abbondanza.
Scatto mio, ovviamente a pellicola (ragazze sono femminista e alto 1.90)
Tuttavia, oltre che ai paesaggi mozzafiato e all’aria piacevole, vivere in questo posto non ha granché di interessante. Non c’è niente da fare, stessi posti, stesse facce, stessi locali, alle 9 è già tutto chiuso. Se fai due passi sembra di girare per una città fantasma, che già è abbastanza visto che i pochi che qua ci vivono ancora stanno crepando o levando le tende. Non puoi neanche biasimare la gente che inizia a drogarsi, se non ti piace andare a letto con le galline (“ndàr in leto co le pite”, in veneto bellunese, espressione che indica andare a letto molto presto, ndr.) e vorresti, che ne so, osare e addirittura mangiarti un introvabile ed esotico kebab. Dove cazzo vai, che ci sono tre ristoranti, di cui due e mezzo fanno solo canederli?
La mancanza di opportunità ha sempre coinvolto le aree montane, e i suoi abitanti hanno un problema con l’abuso di sostanze non da ieri (noi bellunesi la fama di superuomini immuni all’alcool non ce la siamo guadagnata senza fatica). E questo non riguarda solo il Comelico o il bellunese, ma in generale è un problema tipico di queste zone isolate e prive di svago, dove la popolazione invecchia e la comunità finisce per essere priva di spazi terzi. (In sociologia lo spazio primo è la casa, il secondo è la scuola o il luogo di lavoro, mentre gli spazi terzi sono i luoghi di aggregazione: bar, ristoranti, bocciofile, quello che volete).
Certo, per carità, per me che vengo da fuori (il feltrino, forse l’unica parte civilizzata della provincia, ndr), è bello andare al bar di paese e farmi una partita di batadù. Ma se durante il giorno non hai altro da fare, allora il problema, soprattutto per i più giovani, è: dove incanalare il mio tempo libero?
L’eroina (o qualsiasi altra droga, finché inibisce la tua attività cerebrale, va benissimo) sembra la risposta naturale a questo tipo di solitudine e mancanza di vita. Annullandosi, a propria volta vi è un’integrazione nell’ambiente. Ma anche il contrario va benissimo.
Di recente mi trovavo alfestival Reset a Fener, noto ritrovo annuale dedicato alla musica alternativa nel basso bellunese, sotto il ponte che collega le due sponde del Piave. Ho incontrato Alberto, un amico d’infanzia. Anni 17, trattorista da 18, Alby si spacca la schiena e porta a casa uno stipendio da fame. Alby col tempo ha sperimentato moltissimo con le droghe, e a quanto pare è rimasto molto coinvolto dalla cocaina, tanto che ora ne fa un uso disperato.
Se lo incontro davanti alla chiesa, mi chiede se ho bamba. Se porto mia nonna, che ha fatto le elementari nell’età del ferro e non sa nemmeno cosa sia un personal, a fare la spesa, e becco Alby al supermercato, lui mi chiede se ho bamba. Purtroppo non spaccio, altrimenti solo con lui mi sarei fatto il Porsche. E ha perfettamente senso, perché in una landa desolata come le Prealpi, il desiderio di avere qualcosa da fare è disperato. Quando lavori 10 ore al giorno 6 giorni la settimana, non vuoi fare altro che qualcosa, qualunque cosa, e ogni scusa è buona.
E se non c’è la festa, l’unica possibilità è diventare tu stesso la festa.
Ora, parliamoci chiaro: in questo articolo non cerco di darvi le soluzioni, e tantomeno le cause. Non sono un sociologo (ho un lavoro vero). Piuttosto, cerco di trattare questa problematica come un sintomo di un problema molto più grande, che coinvolge la provincia montana: la morte della comunità, e la distruzione di quello che, ironicamente, chiamo “il sogno bellunese”.
C’è stato un periodo, attorno agli anni ’60, in cui dopo il disastro che l’inizio del secolo aveva portato a queste comunità di montagna (tendenzialmente molto ribelli al fascismo, e quindi oppresse), dove pareva che si potesse fare tutto quello che si voleva. L’industria, in particolare l’occhialeria, aveva portato un benessere mai visto, tutto costava pochissimo, ed essendo abituati a una vita grama, i bellunesi tendevano a non sperperare (vige il detto: “Racolto grasso fa undeze mesi, racolto magro tredse”, che in breve invita a non sperperare quando in abbondanza), creandosi col tempo ricchezze importanti.
Ma, rimanendo luoghi poveri di possibilità, isolati e mal collegati, il male di solitudine ha portato un sacco di gente ad ammazzarsi o a emigrare con la fortuna accumulata, comprese le loro aziende, spostandosi in zone meglio collegate o direttamente delocalizzando in paesi dove costavano molto meno di quanto già poco un povero cadorino poteva costare.
Di conseguenza, cosa è rimasto? Beh, del sogno bellunese proprio un cazzo di niente, di quella che invece è la comunità, un tempo insostituibile per queste zone, ben poco, arroccato attorno a gente sempre più stanca. D’altronde, qual è l’alternativa? Vendersi, come hanno fatto i cortinesi? Giammai. I montanari veri piuttosto preferirebbero un lento seppuku, scomparire lentamente, mantenendosi però intatti.
Noi bellunesi siamo quindi tutti ormai impegnati nella lotta per la sopravvivenza. Non c’è più l’economia del boom dell’occhiale. Ci hanno venduto l’idea di una ricchezza abbordabile anche con uno stile di vita diverso, ma non hanno pensato alla realtà macabra e rapace di chi ci credeva sul serio, arricchiti che speravano in un futuro prospero e bucolico, e che pensavano che il biglietto per la felicità fosse bere liquore da 5 euro alla bottiglia preso alla Standa in un bicchiere di cristallo di Boemia. Ma la loro sconfitta, e la loro dipartita, sono anche le nostre.
Quello che il sogno bellunese si è portato via è uno stile di vita, che in primis aveva contribuito a creare. Una generazione di disperati, che lotta non tanto per sopravvivere, ma per trovare anche solo un motivo che renda la vita un minimo degna di essere vissuta, e che non ha mai capito la falsità della cultura che si sono trovati in mano: la disperata supposizione che qualcuno, o almeno qualche forza, custodisse la luce in fondo al tunnel.
“C’era una sola strada per tornare a Feltre, la provinciale 12 bis. Solo una bruciatura piatta, piena di Velox, tra Busche, Vellai e Zermen. Poi la superstrada per Treviso, dritta verso il frenetico oblio. Sicurezza, oscurità. Solo un altro belumàt, in un mondo di veneziani.”
L’Aleph, ovvero Albano Carrisi “Ogni cosa [...] era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera […] vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia,… vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, …incontrai Albano Carrisi per […]
Ovunque tu sia le tue radici ti precedono, il tuo destino ti insegue, il tuo essere mutando t'appare in sogno e alla fonte dei tuoi desideri scorgi l'anima mundi.