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BAR ADRIATICO™

BAR ADRIATICO™
Lettura boomer
L'estate tossica che non dimenticherai

Ora che è passata l’estate, e finalmente ci siamo liberati per un altro anno di “tutto passa”, caffè con la moka, vita lenta e funk napoletano, possiamo dirlo una volta per tutte: Bar Mediterraneo ha rotto i coglioni!

Camicie variopinte (ogni riferimento è puramente casuale) sbottonate fino all’ombelico, Nu Genea pompati su casse Bluetooth da 250 euro, calici di vino bio-natural-bevibile versati da uno che dice di chiamarlo Totò ma in realtà si chiama Matteo ed è di Segrate.

Fondamentalmente nient’altro che un ritorno di fiamma degli hipster. Mancano bretelle e barba (testosterone insufficiente!!), ma rimane l’ineresse per non “essere come gli altri” (altri chi?) e tutto ciò che è “bio”, “naturale”, “lento”, “genuino”. E soprattutto le camice. Levate le camice agli alternativi!

È ufficiale: l’estetica Bar Mediterraneo è diventato un resort algoritmico, un format prefabbricato da Terzo Millennio per gente che vuole vivere l’autentico, ma con l’aria condizionata (nonostante poi ammiri Mario Draghi). Tutto soppesato, filtrato, monetizzabile. Una pantomima estiva per expat senza radici e social media manager in burnout.

E siamo onesti: sono tre anni che sta roba gira. Su internet è un’era geologica.

Nell’articolo sulle merdomacchine, lo citavo ancora con tenerezza, con nostalgia. Ma parlavo del 2023, cazzo. Adesso siamo nel post-post-post, sarebbe anche ora di aggiornarsi.

La lentezza obbligata del reale

Ti vendono il tramonto, ma non ti fanno vedere il bagno chimico dietro al lounge bar. Si vestono da pescatori, ma non sanno distinguere un’orata da un polipo. Fotografano una lambretta rossa davanti a una casetta sul mare, ma non dicono che il vero proprietario la ha condonata tre volte e va ancora al mercato con un Gilera Runner con le plastiche cotte dal sole.

Dietro la cartolina c’è il nulla foderato di buone intenzioni. Una Napoli da copertina, che non puzza, non urla, non spaccia. Una Sicilia da sogno, senza zanzare, senza umidità, senza cugini che ti chiedono soldi. Una Puglia remixata in postproduzione da un creativo di Milano con i baffi da trapper e la libreria in stile Japandi.

La vita lenta che idolatrano è un privilegio economico. Serve il capitale per vivere senza orologio. Serve il wi-fi per lavorare da remoto nel tuo trullo ristrutturato. Serve tempo, soldi e distanza totale dalla realtà. È una lentezza per pochi, spacciata come ribellione.

Ma la lentezza vera è forzata: quella dei bar senza POS, dei treni che non arrivano, delle pensioni minime che non bastano. Non è poetica. È logorante. È obbligata. È il tempo morto del Sud che non fa Instagram.

Eppure è lì, si muove sotto la superficie.

È la lentezza che scorre perché non può correre, che non si fotografa perché ti sfugge ogni giorno. È il tempo dell’attesa infinita, del nulla che si accumula e ti cresce addosso. Non ha soundtrack, ha solo silenzio interrotto da uno sciame di motorini truccati. Quella è la vera vita lenta. Quella vera, che non vuoi.

Adriatico: confine liquido, guerra fredda

Benvenuti nella vera estate italo-balcanica: tossica, fangosa, che sa di nafta agricola e rancori irrisolti. Quella che ti entra sotto le unghie e non va via nemmeno a settembre. Qui la notte non è romantica, è solo buia. Il giorno non è spensierato, è solo caldo.

E il mare? Non è blu. È profondo e incazzato. Come te. Come noi.

Nessuna golden hour. Solo sirene della Finanza e ombrelloni divelti.

E in sottofondo, un tizio in canotta grida: "Occhio, son passati di là!" Da Ravenna a Zara, da Pescara a Spalato, da Caorle a Kotor, l’Adriatico è un muro liquido. Un corridoio per passaggi di vite, merci, sigarette, carne umana. Un confine che unisce, divide, scambia.

Qui il folklore è fatto di motoscafi montenegrini carichi di kalashnikov e centri commerciali costruiti su ex discariche illegali.

Se Bar Mediterraneo è una “vibe”, Bar Adriatico è un’inchiesta giudiziaria.

È il porto franco dell’Italietta criminale, il backstage del belpaese, la zona logistica del malaffare che ti porta le armi dalla Croazia in cambio di un carico di sigarette di contrabbando.

Se il Mediterraneo è sogno d’Agosto, l’Adriatico è la follia distopica di metà luglio, quando fa troppo caldo per lavorare ma non puoi prenderti le ferie perché si è in piena produzione.

Non è estetica. È geopolitica in costume da bagno. È il confine galleggiante dove sì, tutto passa, ma nessuno resta. Dove la direzione è sempre sfuggente e il vento porta sempre qualche lingua in più, qualche cicatrice, qualche occasione bruciata.

Non si fa turismo su questo mare. Si fa sopravvivenza.

Frazioni e rancore

Ma il veleno non viene solo da est. L’odio è anche locale, domestico, capillare.

Bar Adriatico è pieno di frazioni divise da canali di merda, 200 metri di acqua marroncina e stagnante, intere famiglie che non si parlano da vent’anni. "Noi non siamo quelli di là." E se chiedi il perché: "Vatti a fidare, quello è di Ciano." (che sta a due minuti di macchina). Fine della spiegazione. Inizio della rissa.

Zuffe nei parcheggi dei lidi. Faide tra bagnini. Campionati regionali di sputo in lungo o di sigarette fumate all’ora.

Qui l’etnia si costruisce col rancore, la cultura è identità per esclusione. È un patchwork di piccole ostilità, tutte vere, tutte scolpite nel cemento armato dei piloni delle autostrade.

Non c’è ironia. C’è solo il peso degli anni, delle colpe ereditate, delle lettere minatorie mai spedite ma sempre pronte. Il mare qui non unisce. Sbuffa. Borbotta. E poi, quando può, inghiotte.

AdriaCosta

AdriaCosta è un collettivo musicale dell’Alto Adriatico.
Nex Cassel, Gionni Gioielli, Gionni Grano, Dium.

Fanno rap ruvido, basso, ricco di storytelling ed estetica.
Nei loro pezzi c’è la costa fuori stagione: quella dei centri commerciali, dei parcheggi vuoti, dei giri senza meta.

Parlano di droga, noia, notti lunghe, provincia.
Descrivono il presente da dentro, senza intenzione narrativa.

In un certo senso, AdriaCosta è già Bar Adriatico. Ne è la colonna sonora. Quella che gira sui motorini, nei bar con gli slot, negli auricolari nei turni di magazzino.
Non arriva dopo il racconto: lo precede. Lo prepara.

“Sotto tutta depilata, ma in pelliccia di visone /
La tua donna è troia, snitcha con l’ufficio immigrazione”

– Janice Griffith, Gionni Gioielli

Nessuna morale, nessun piano.
Solo una linea dritta tra frustrazione e sopravvivenza.

AdriaCosta non è un fenomeno culturale.
È un prodotto diretto di un Adriatico che non si sogna e non si vende.

Il mare di merda

Raoul Casadei (sì, quello con cui tua nonna scassava i coglioni a furia di “Ciao mare”) diceva sul serio:

“Per me il mare della Romagna è meglio delle Maldive.”

Ecco. La frase più onesta mai detta sull’Adriatico.
Non perché fosse vera. Ma perché non gliene fregava niente se non lo era.

Lo sapeva che faceva schifo. Ma era il suo mare. Il nostro.

Il mare della nostra costa è marrone, schiumoso, poco profondo.
Ogni bracciata è un atto di fede in un ecosistema compromesso.
Tanto varrebbe farsi quattro bracciate nella letamaia.

Eppure, a Jesolo o a Rimini ci andiamo eccome. Ogni anno. Con convinzione.
Non c’entra la consuetudine, non c’entra il folklore. C’entra che ci siamo legati.

-Vi lascio quella che, per me, è la colonna sonora ufficiale delle vacanze al mare.

Al rumore delle cicale, alla ruggine nelle docce, alla sabbia/carta vetrata dentro al costume.
Non è un mare da amare. È un mare da sopportare.
Ma almeno non finge di essere altro.

Non promette acque turchesi o esperienze “sensoriali”.
Ti dà esattamente quello che vedi: caldo, sudore, gente urlante, e un’acqua così piena di alghe, merda, crema solare e fango che se per caso mentre nuoti ne prendi una boccata devi contattare il centro antiveleni.

Casadei aveva già capito tutto.
Altro che escapismo esotico.

Il mare vero puzza di culo.

Ridateci l’estate che fa schifo.

E quindi? Basta mojito con il rametto di rosmarino. Basta stories col filtro 16mm. Basta pareo ricamato a mano.

Ridateci l’estate col bagnasciuga puzzolente, gli adolescenti che urlano, i tedeschi in sandali e calzini di spugna, le serate dove la musica è troppo alta e la gente troppo brutta per ballare davvero.

Ridateci l’Adriatico: con le sue zanzare, i suoi stabilimenti tristi, le sue guerre tribali tra frazioni con lo stesso CAP, le sue frontiere immaginarie, e quelle reali fatte di cemento e guardia costiera.

Ridateci i bar con la Gazzetta stropicciata, i caffè cattivissimi ed annacquati, i tavolini storti, le coppie che litigano forte.

E va bene così. Perché in questo orrore c’è ancora qualcosa di vero.
Un fondo ruvido. Una bestemmia sincera, di chi in Dio ci crede davvero.
Una birra con troppa schiuma ma bevuta insieme.
Un saluto storto, ma affettuoso.
Un parcheggio trovato dopo venti minuti di girone infernale.
La multa presa, ma accettata con filosofia (o con la gambizzazione degli ausiliari del traffico).

Il Mediterraneo è l’Y2K del Sud. L’Adriatico è l’URSS post-crollo.

Il Mediterraneo ti promette: autenticità patinata, estetica da festival, sabbia soft-touch, drink con foglie di basilico.
L’Adriatico ti dà: birra calda nel borsone termico, vodka del Carrefour, panino col cotto sudato e macchia di rosso sulla canotta.

E non è che non ci si diverte. 

È solo che qui la gioia ha un odore più chimico.

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