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Come sfuggire al tecno capitalismo

Come sfuggire al tecno capitalismo
Lettura boomer
Archeofuturismo come postura spirituale nell’era del collasso: non salvezza, ma estetica del disastro. I cultisti del meme, non gli ingegneri, rifonderanno la civiltà. Carne, mito, silicio e rito: sopravvivono i mistici, non i manager.

Guardiamoci in faccia

qua la situazione è sfuggita di mano. Chi pensa di poterla recuperare è ancora più fuori di chi ancora non si è accorto di nulla.

La rivoluzione industriale e le sue conseguenze hanno completamente fottuto il Dharma.

Ora passeranno secoli, se non millenni (esattamente come successe con la rivoluzione agricola), prima che homo sapiens – o quello che ne sarà rimasto – possa trovare un nuovo equilibrio con il cosmo.
Fino ad allora il Leviatano tecnocapitalista continuerà a fagocitare qualsiasi cosa gli capiti a portata.

In questo delirio

le uniche disposizioni dell’anima possibili per qualcuno della mia generazione, ultimo dei millennial, ma con una vocazione zostile e con il cervello fritto da Ted Land e Nick Kaczynski, sono due:

trasformarsi in un monaco dell'accelerazione e del caos,
o diventare uno schizo-survivalista pronto alla convergenza di catastrofi.

O perlomeno qualsiasi vocazione compatibile con un film di Mad Max o un covo di tecnopirati.
Ma le opzioni che le voci nella testa mi suggeriscono sono le prime due.

Che poi, pensandoci bene…

Per anni abbiamo pensato all’universo post-catastrofico di Mad Max come se fosse una distopia:

non ci avevamo capito un cazzo.

Non è stato infatti George Miller a pensare questo universo narrativo,
ma l’uomo-scimmia collettivo presente nella testa di tutti noi.
Si tratta infatti del frutto della fantasia del nostro antenato neanderthal inscritto nel nostro patrimonio genetico
che prova a processare la società industriale.

L’Occidente globalizzato

è oramai in avanzata fase di autofagocitazione:
uscito vincitore della guerra civile europea ed assurto a guida del sistema-mondo
a causa del suicidio dell’Unione Sovietica,
ha costruito un sistema economico-sociale in grado di:

tritare qualsiasi dimensione comunitaria e/o spirituale
per poi caccarla sotto forma di società liquida.

Finanziarizzando, poi, l’esistente con il preciso scopo di poter parassitare qualsiasi scambio di:

energia-informazione-denaro
(che poi alla fin dei conti sono la stessa cosa).

Quel matto (in tutti i sensi) di Ezra Pound avrebbe parlato di usurocrazia


mentre il padre di tutti gli INCEL (Carlo Marx) avrebbe denunciato
un processo di totale reificazione planetario.

Tant’è che oggi l’Occidente

è comandato da una serie di varie tribù composte di vincenti della globalizzazione – gente che la lotta di classe l’ha fatta dal lato del capitale e l’ha stravinta – in lotta perpetua per la conquista dell’anima del maggior numero di NPC possibili.

(P.S. Non vi venga in mente di pensare di liberare in massa gli NPC dalla loro condizione, perché il 95% (cifra esatta) di loro ama il matrix più di quanto ami propria madre.)

Tutto questo per dire che non c’è soluzione politica, o meglio: non c’è proprio soluzione al caos attuale.
Non se ne esce, al massimo si accelera.

E non è un’iperbole: è una diagnosi clinica.

Non c'è reset democratico,
non c'è partito giusto,
non c'è "uscita a sinistra" o "ritorno alla tradizione".
Non c’è rivoluzione utile, né riforma possibile.

Il Leviatano

ha già mangiato tutto il futuro
e ci ha fatto i reel su TikTok.
Ogni tentativo di salvare il sistema è solo un modo per offrirgli più carne da tritare.

Non resta che una cosa: larpare forte il proprio ruolo.

Perché se sei nato in mezzo alla convergenza delle catastrofi,
il massimo a cui puoi aspirare è renderla esteticamente ed esistenzialmente significativa.

Se proprio dobbiamo bruciare, facciamolo con stile. Non c’è redenzione, ma almeno c’è scena.

Faye forse ci ha preso: forse la convergenza è già qui e ci sta addestrando, a modo suo,
a smettere di cercare una via d’uscita.
E iniziare invece a danzare nel disastro,
come monaci dell’accelerazione o miliziani post-apocalittici.

Il punto è

che la modernità ci ha fatto talmente schifo
che ora ci emozioniamo per ogni brandello di barbarie.
Basta vedere un video di un tipo che si costruisce un coltello col metallo fuso della lavatrice e subito gridiamo:

“è cominciato!”

Ci eccita il ritorno al tribale non per nostalgia,
ma perché almeno lì c’erano regole, onore, gerarchie.
C’erano rituali — anche stupidi — ma che ti facevano sentire parte di qualcosa più grande del tuo feed.

Questo lo aveva capito Faye

prima di tutti:
il futuro o sarà arcaico o non sarà.

E non perché torneremo alle caverne,
ma perché è finita l’illusione del progresso lineare.

Il mondo non va da nessuna parte. Sta girando su se stesso come un cane impazzito che si morde la coda. E noi, presunta brava gente, lo stiamo filmando col telefono per fare un Reel.

L’archeofuturismo

è l’unica ideologia abbastanza mobilitante
da sopravvivere alla saturazione dell’immaginario.
È il sogno di una civiltà che si è rotta ma non è pronta a sparire:
preferisce rattopparsi con simboli, memi, superstizioni e powerbank.

Vuole un re sacro che sappia usare Telegram.
Un sacerdote che si intenda di ottimizzazione SEO.
Un sistema feudale con i badge.

E intanto l’intelligenza artificiale?

Tranquilli. Le IA sono solo l’ennesimo tentativo goffo di togliere all’uomo la fatica del pensare.
Ma la materia non molla.
L’umano — quello vero, di carne e voglie, che sbaglia, bestemmia e poi fa il bagno nel fiume sacro — quello resta.
Non si digitalizza.
Al massimo si decora la faccia con i filtri per sembrare un guerriero apache o un cagnolino.

Perché sotto tutto…

sotto le app, sotto gli NFT, sotto le guerre ibride e le crisi infinite,
resta la fame di sacro.

Una fame così antica che oggi si maschera da disturbo dell’attenzione.

Ma è la stessa fame che fa impazzire i profeti
e commuovere i bambini quando vedono il fuoco per la prima volta.
O soprattutto quando vedono Il Signore degli Anelli.

Ecco allora che l’archeofuturismo

non è una soluzione, è un atteggiamento.
Una predisposizione dello spirito.
Non serve per vincere, ma è sufficiente per non perdere.
Con stile, con simboli, con una corona di latta e uno stendardo fatto con i sacchetti dell’umido.

Perché se proprio dobbiamo estinguerci, almeno lasciamo dietro un’estetica dal sapore sacro, sti cazzi se poi puzza come un sacco dell’umido ad agosto.

E forse, alla fine, la civiltà non la rifonderanno gli ingegneri,
ma i cultisti del meme, i narratori borderline,
i teorici della rovina con la lanterna di Diogene e un account burner su X.

Chi cazzo ha detto

che la tecnologia ci supererà?
Siamo ancora convinti che la carne abdicherà alla macchina?
Sogni lucidi da centri di ricerca siliconati.

La verità è che anche nell’epoca delle IA e dei simulacri cognitivi,
a dominare sarà sempre la tribù più tosta, più coesa, più mistica.

La potenza è carne prima che algoritmo.

Ogni intelligenza artificiale dovrà comunque servirenon comandare
un disegno organico, un culto, una fame.

La macchina può simulare tutto tranne il dolore e la visione.
E queste due cose restano appannaggio esclusivo del corpo e dell’anima umana.

Perciò l’archeofuturismo

non è solo estetica da Mad Max:
è strategia postumana.

Non vince chi diventa più “tech”,
vince chi salda il silicio al sangue,
chi rende mobilitante il sacro,
chi fa tremare l’algoritmo davanti all’icona di Cristo Pantocreatore.

C’è qualcosa in noi

— chiamiamolo pure spirito
che nessuna rete neurale potrà mai emulare.
È lo stesso impulso che ha portato le Bene Gesserit di Dune a tramandare il dominio genetico
sotto le sabbie, preparando il Kwisatz Haderach.

È lo stesso che lavora in segreto nei gangli del caos,
dentro ogni millennial scontento
che sente di essere nato troppo tardi per Dio e troppo presto per l’apocalisse definitiva.

E allora no, non saremo superati. Saremo distillati.

Ottimizzati dalla sopravvivenza, da Polemos.
La civiltà selezionerà i superstiti come il deserto di Herbert ha costruito la civiltà mistico-guerriera dei Fremen.

Non è il futuro della tecnica che dobbiamo temere,
ma il ritorno del mito.

E quel mito non sarà più soft,
non sarà più figurativo.
Sarà carne, sarà rito, sarà clan.

Non vogliamo IA sovrane.

Vogliamo sacerdoti-codificatori,
apprendisti profeti che programmano nel nome del sangue.

Vogliamo la jihad mistica e memetica,
la resurrezione dell’arcaico in forma vettoriale,
il ritorno dell’oracolo nel cloud.

Le nuove guerre non saranno

non sono
per il petrolio ma per l’accesso all’immaginazione collettiva,
al nostro cervello.

E quando tutto questo inizierà — anzi, forse, sicuramente è già iniziato — ci troverà pronti.

Non come cittadini,
ma come monaci-guerrieri,
guerriglieri del metaverso,
tecnodecadentisti
che non hanno nulla da difendere se non un’idea troppo antica per essere spiegata:

come tecnopirati e tecnopartigiani.

Perché in fondo

la fine del mondo moderno è solo l’inizio della grande ordalia.
E chi ha radici sotto i piedi saprà anche pilotare le tempeste.

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