Quando l’algoritmo mostra la realtà

perché Instagram ci ha mostrato scene di violenza?

Quando l’algoritmo mostra la realtà
Lettura boomer
Cosa è successo all'algoritmo? Forse non siamo ancora pronti...

Mi alzo, stropiccio gli occhi, ancora intontito dal sonno. La routine è la solita: apro Instagram quasi per inerzia, scrollo, mi faccio imboccare slop digitale come un’oca da foie gras. Lo faccio anche io, lo dico almeno, perché quei guru “io so’ mejo degli altri” mi hanno sempre dato il voltastomaco. Ma stavolta no, stavolta qualcosa è diverso. Qualcosa è andato storto.

Il feed non è più il solito circo di meme, lingan guli guli guli, brainrot e qualche influencer che vuole vendermi cibo. No. È un mattatoio. Scene che non dovrebbero apparire, semplicemente se ne sbattono e appaiono, si riversano sullo schermo come un incubo senza alcun filtro. Esecuzioni in piena regola, corpi sventrati, gente che muore davanti ai nostri occhi. Un uomo si accascia con il cranio forato da un proiettile. Lo vedo. Lo vediamo tutti. Instagram si è trasformata in un sito di gore.

Internet va nel panico.

X diventa un’onda anomala di panico digitale:

“Instagram è impazzito”

“Ho appena visto un uomo squartato”

“Zuck, che cazzo sta succedendo??”

Poi inevitabilmente, la seconda fase: la dietrologia. Perché su internet non esistono errori, c’è sempre un complotto – e non è una critica, sono d’accordo. Un bug? Troppo facile. Qualcuno ha premuto il tasto sbagliato, oppure qualcuno voleva che lo vedessimo, tipo un hacker? Noiosissimo. L’errore tecnico non è contemplato, c’è sempre un’operazione occulta.

Ufficialmente? Un glitch nei filtri di Instagram, un bug nell’algoritmo della censura sensibile.

Possibile che sia così, ma sapete cosa? Io non sono d’accordo. Non perché il glitch non sia reale, ma perché non credo che sia un errore. Seguiamo il filo: Zuckerberg ha costruito un ecosistema digitale asettico, disinfettato, perfettamente sterilizzato. Meta era la culla della sorveglianza dolce, ti censura, ti accarezza, ti tratta come un bambino da proteggere dai mostri sotto il letto.

Poi però, Zuck cambia marcia. Salta la barricata e si piazza dall’altro lato della guerriglia culturale. “Libertà! Libertà! Libertà!” urla dopo essersi rifatto il look, indossando una casacca con la scritta AUT ZUCK AUT NIHIL invece della solita magliettina grigia. E così, giù i filtri, addio censura woke, via il politicamente corretto.

L’algoritmo ha solo eseguito gli ordini.

Zuckerberg dice all’algoritmo che non deve pensare più alla sensibilità dei millennial californiani. L’algoritmo capisce, esegue, ma esagera. Troppo entusiasmo, troppa libertà, troppo poco controllo: il sangue arriva sul feed.

Adesso seguitemi: per parlare di malfunzionamento, dovremmo pensare che è l’algoritmo ad essersi sbagliato, ad aver capito male, ma io personalmente sono sempre dalla parte dell’algoritmo.

I filtri sono saltati. Stop. Giù il sipario e la sua cortina di protezione. L’algoritmo non ha fatto più da babysitter. Errore? Esperimento? Sadismo corporativo? Forse Meta voleva solo vedere cosa succede quando togli il filtro di bellezza alla realtà.

E nel frattempo, su TikTok

Va in scena la rivoluzione kawaii: “Cute Winter Boots” è la frase che utilizzano, è un filone estetico di video che hanno trasformato il dissenso in moda. Guide per protestare con il look giusto, tutorial su come coprirsi il volto con stile, il make-up resistente al riconoscimento facciale. Tutto un film, tutto edulcorato, persone decisamente impreparate che ti spiegano come fare la rivoluzione, loro immaginano un musical: il fumogeno in slow motion, la molotov lanciata con la grazia di una coreografia di Broadway, un sottofondo epico e il Tecnato d’America che crolla sulle note di “Do You Hear the People Sing?”

Ma la rivoluzione vera non è un musical.

Non è cinematografica e non è cool, non ha filtri. Quando muori non è scenografico: niente cadute poetiche, niente battute finali da protagonista. Il colpo ti trapassa il cranio, crolli nella posa più brutta del mondo, sbavando, con la ciccia fuori posto, l’espressione congelata nel ridicolo, e sì – probabilmente ti caghi pure addosso.

Chi aveva giocato con l’immaginario bellico, chi aveva flirtato con la narrazione della battaglia come posa estetica, si è ritrovato sopraffatto. Le stesse persone che fino a ieri glorificavano la resistenza al Cesare americano (o il Mao?) ora gridano al trauma.

Quando si sono trovati davanti alla morte senza l’imbottitura della post-produzione, molti hanno capito di non essere pronti. Perché possiamo estetizzare tutto fino al punto in cui la realtà torna a presentare il conto. E Instagram ne ha presentato uno salatissimo.

L’algoritmo ha sempre ragione.

Ha fatto esattamente ciò che doveva fare: squarciare il velo della menzogna. L’Instagram di influencer, cibo e drama è una favoletta per addormentare gli utenti. Un anestetico sociale. La realtà non è quella: è tagliente, arrugginita, marcia di rabbia repressa.

Se Trump vuole ripristinare l’autenticità del mondo, smantellare l’ideologia al comando della realtà, allora la verità deve essere questa: il mondo è un disastro, è arrabbiatissimo. Basta uscire dall’internet addomesticato per accorgersene. Là fuori è tutto un campo minato. Telegram, 4chan, le cloache digitali che chiamano “fogna” non sono altro che specchi più fedeli di questa epoca. Siamo anche – e soprattutto – quell’abisso quando si spegne l’interruttore della sorveglianza.

Non è un caso che i luoghi dove prolifera l’estremismo politico siano anche archivi infiniti di gore. Il nesso è chiaro: l’era della rabbia sta arrivando, The Donald lo sa, e Zuckerberg è il programmatore che deve tarare l’addestramento mentale delle masse. Riabituarle alla violenza. Certo, gli è scappata un po’ la mano, ma il punto è un altro.

Non è forse vero che i ragazzini oggi apprendono interi universi simbolici radicali direttamente dall’algoritmo?

Quanti Gen Alpha si sono trasformati letteralmente nel pittore austriaco dopo aver visto troppi reel Save Europe con sotto l’eurodance? Una volta, per scoprire cosa diamine fosse l’Iperborea, dovevi farne di letture maledette. Oggi invece di giocare a calcetto, i ragazzini discutono su TikTok di come trovare l’ingresso di Agartha. L’algoritmo e Gigi Dag hanno già preparato i lupi solitari. Manca solo un pulsante per liberarli.

Il feed ci ha addestrato.

Prima mi proposero i reel sull’energia Vril, e io non dissi nulla perché i quadri di Vsevolod Ivanov sono oggettivamente una figata. Poi mi mostrarono una statua di Arno Breker che mi intimava di salvare l’Europa, e non dissi nulla perché oggettivamente la musica era pure quella fighissima. Poi mi mostrarono gore e splatter sul feed di Instagram, io non dissi nulla perché non feci in tempo a metabolizzare.

E poi, quando la guerriglia culturale ha rischiato di degenerare, nessuno ha fatto nulla, non solo perché nulla accade mai, ma perché non sapevamo neanche cosa fare.

Perché questo ci ha scioccato così tanto?

Perché la gente urla al trauma davanti alla violenza reale? Semplice: perché abbiamo fallito nell’addestrare le persone alla realtà. Forse il glitch era un messaggio più che un errore. Ovviamente, il sistema si è affrettato a correggere. Zuckerberg ha rimesso il tappo.

Il teatro della sicurezza è stato riallestito.

Ora il feed è tornato quello di sempre: cibo, palestra, motivazionali, pubblicità camuffata. Il terrore è stato ripulito. Ma forse quello schiaffo ci ha svegliato, il mondo è sull’orlo del baratro e ci si riempie la bocca di proclami violenti. Tanto vale assimilarla, prepararsi alla sua realtà.

Quindi, caro Mark…

La prossima volta non ripulire tutto così in fretta. Lasciaci guardare ancora un po’.

Perché, se il mondo sta per diventare un inferno, il feed dovrebbe rispecchiarlo, e noi dovremmo scrollare fino in fondo.

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