Viviamo in una società
Di leccaculo ritardati
Una nuova società che si è riscoperta politeista. Una nuova società che nella sua indole psico-sociale celebra l’individuo e il privato, come fine ultimo e supremo, finendo per oscurare l’importanza dell’atto collettivo. Questa celebrazione assoluta del profitto individuale e della figura dell’imprenditore self-made è una convinzione ancora ben radicata nel nostro mondo e nella nostra quotidianità.
Certo è che il culto della personalità non è in alcun modo una peculiarità del contemporaneo, verrebbe da dire che è forse uno degli impeti più primordiali a cui la natura ci ha condannati, che spinge all’abnegazione, o alla sottomissione, nei confronti di una personalità, di un simbolo, di un sogno. La risonanza mediatica che Internet ha concesso alle masse non ha fatto altro che cementare la necessità, di servire un capo, o di farsi rappresentare da un delegato.
Deleghiamo al delegato
che sicuramente meglio di me sa
come inculare il prossimo
Perché io altro ho da fare
Come pensare a sopravvivere
E a farmi cornificare
Che sia un’opzione o l’altra non ha alcuna importanza: il punto cruciale è che gli umani sono scimmie che a seconda della loro predisposizione genetica tendono a scrollarsi di dosso quante più responsabilità possibili. Sottolineo l’espressione predisposizione genetica perché è questo il punto cruciale dell’intero discorso: la probabilità, la sorte, il caso, diceva il buon Primo Levi.
Una nuova società, dunque, nella quale i fabbri del nuovo avvenire hanno temprato nel suo inno all’esistere il termine:
meritocrazia
Ma è il momento di far calare il sipario su questa mirabile bugia bianca:
la meritocrazia è un ideale che non esiste e che non può esistere.
Forse la vita non vi ha ancora preso a schiaffi come si deve. Forse la società non è abbastanza equa, non è ancora pronta a partorire questa dolce utopia. In fondo, la vita è un sistema probabilistico ed in quanto tale NON può essere meritocratico, non nel senso con cui generalmente intendiamo questa parola. Inoltre, di merito si può discutere a posteriori, non si può pensare di discuterne a priori.
Hai forse scelto il luogo in cui sei nato? Hai forse scelto il padre e la madre che ti hanno allevato? Hai forse scelto l’infernale città in cui sei cresciuto o se vivere in una pajara o in un trullo? Hai forse scelto le opportunità che ti si sono parate davanti? Hai forse scelto che la tua ragazza ti tradisse? Hai forse scelto di avere un corpo ottimale, hai forse scelto di trovare l’amore? Hai forse scelto di nascere in Italia, uno dei paesi più ricchi su questa gabbia di matti che vorteggia nel cosmo?
Hai mai davvero scelto qualcosa in vita tua?
Te lo dico io: non hai scelto un cazzo. Se questi fattori primi, su cui non abbiamo controllo, determinano il nostro essere, la nostra potenzialità, allora non possiamo arrogarci la presunzione di parlare di merito. Ne consegue che, se la meritocrazia altro non è che uno specchietto per le allodole (i ritardati di cui parlavo prima), allora possiamo dirimere la genesi del mito del self-made-man.
Una narrazione costruita ad hoc, con la stessa cura con cui il Canova confezionava le vive figure delle sue opere. Queste ingannevoli macchinazioni allignano nell’acquitrino di melma in cui galleggiamo, dove una nuova generazione di superomistici giganti visionari si è eretta, vere e proprie divinità che defecano immense pepite d’oro nello stesso acquitrino dove noi sguazziamo. Qualche imbecille ancora più ardito li direbbe una razza superiore, una stirpe eletta i cui membri trasformano in meraviglia tutto ciò che toccano. Secondo queste premesse, questi si configurano come i soli che meritano di fare parte di quell’uno percento, per competenze, per abilità, per intelligenza, per diritto. I benedetti dalla sorte.
I social network, la piaga più colorata dell’ultimo decennio, non hanno fatto altro che aumentare la risonanza mediatica dei nuovi modelli, generando veri e propri culti attorno ad essi. Questi culti, che sarebbe più corretto definire sette per via della loro ossessività, hanno eretto palazzi digitali in nome della stella che venerano.
In una società dove il successo è formalizzato solo in termini economici, non più l’artista, non più lo scienziato, l’inventore o lo scrittore, no:
Il reale genio rivoluzionario del nuovo millennio é l’imprenditore
Espletando banalità: maggior quantità di denaro vuol dire influenza. Influenza vuol dire propaganda. Propaganda vuol dire ombre ed illusioni. Così ha preso piede che vede i nostri imprenditori miliardari di quartiere come dei self-made-man, dei geni che hanno costruito un impero dal nulla, semplicemente grazie alla loro abilità ed al loro impegno. Fumo negli occhi.
Questo sistema è estremamente efficace perché riesce a plasmare tutte quelle menti prive di anticorpi ai cazzari, che sognano di arricchirsi imitando la scalata della divinità di turno. Questi dannati sono stati convinti che anche loro diverranno ricchi, se solo si impegneranno abbastanza.
La fregola è inevitabile: sveglia alle 5 del mattino, doccia fredda, grinding. Così si rinuncia ai vizietti, niente abbonamenti ai servizi di streaming, niente avocado-toast, niente follie economiche. Ogni centesimo è un mattone per costruire il proprio impero dal niente. Vivere per lavorare, una formula infallibile per ottenere automi iper-produttivi, con tendenza a farsi sfruttare nelle aziende. Così si avvia la guerra tra poveri: chi si accontenta, chi si lamenta, chi non cerca di ricalcare i canoni del self-made-man merita di restare povero. Convincere che tutti possano diventare ricchi è stata di sicuro la trovata più geniale degli ultimi mille anni:
lo scacco matto delle inculate
Altrettanto furbo è stato convincerci che la società necessita solo di tecnici
La propaganda vuole che ci sia bisogno solo di giuristi, di economisti e soprattutto di ingegneri. Non rimane nessuna alternativa se non quella di indirizzare i giovani affamati di riscatto sociale verso quella direzione. Che le masse si rassegni dunque allo studio di queste discipline, se i più ci tengono a condurre una vita dignitosa. In fondo si sa, siamo giovani mediocri e non si vive di velleità.
I nuovi modelli ci vengono presentati come iper-intelligenti, oltreumani, opportunisti disillusi, perché hanno compreso che il denaro è tutto, hanno compreso l’ essenza della macchina, perché hanno in mano la macchina. Essi possiedono certamente delle abilità che sovrastano quelle della media degli individui comuni, sono all’estremo della campana: questo è di certo innegabile. Tuttavia queste abilità non sono in alcun modo il puro e solo frutto del loro impegno individuale bensì il prodotto di una miserabile serie di privilegi.
È qui che il self-made-man si dimostra infingardo e reticente
Si potrebbe obiettare che la fortuna senza il duro lavoro non serva a niente e che non basti per raggiungere il successo. Questa obiezione è legittima ma non tiene conto che anche essere una persona diligente, in grado di “lavorare duro”, non dipende che da un unico fattore: il caotico caso. In primo luogo i fattori genetici stessi: essi di per sé determinano il singolo nella sua interezza. Poi il reddito famigliare, le opportunità disponibili, l’educazione che si è ricevuta, le circostanze in cui si cresce e la malattia, sono tutti una serie di fattori che influenzano la predisposizione all’impegno.
Se ne avveda lo stolto, allora, a pensare che la virtù personale sia frutto di un qualsivoglia sforzo individuale: ne rimarrebbe assai deluso.
Sono conscio che combattere il privilegio, di qualsiasi tipo, sia come combattere contro i mulini a vento. Esso è endemico nella nostra società ed è utopico pensare che possa essere debellato totalmente. Anche esso è determinato dal caso e chi è privilegiato tende ad ignorare quanto esso influisca sulla propria esistenza. Non è qualcosa su cui abbiamo controllo. Non ne comprendiamo l’impeto. Perdiamo di vista tutti coloro che non lo sono, o che non lo sono stati. È qualcosa di pervasivo che condiziona il nostro modo di vedere e di rapportarci con l’esterno. Survivorship bias, nient’altro.
Per confutare tutto ciò non basta che magari un poveraccio, partito davvero dal nulla, sia riuscito a realizzarsi come individuo e ad arricchirsi. Il povero che diventa ricco solo grazie all’impegno è una dolce illusione che ci viene propinata, come detto in precedenza. Basti pensare a tutti coloro che nonostante l’impegno non sono riusciti a diventare ricchi oppure più semplicemente a raggiungere un qualsiasi obiettivo. L’impegno non può nulla contro il caso. Semplicemente non basta.
Invitando il lettore a trarre le sue conclusioni, vorrei chiudere questo articolo con una citazione pungente quanto efficace nel riassumere quanto detto:
Se la ricchezza fosse solo il risultato del duro lavoro e dell’intraprendenza, ogni donna in Africa sarebbe milionaria