Tutto quello che so di Garlasco lo so contro la mia volontà

Tra dovere di cronaca e voglia di horror

Tutto quello che so di Garlasco lo so contro la mia volontà
Lettura boomer
Gli italiani non vogliono scoprire chi ha ucciso, vogliono solo vibes da serie Tv.

Prima che molti di voi storcano giustamente il naso, lo preciso: con questo articolo non voglio mancare in alcun modo di rispetto alle vittime degli omicidi che verranno citati, tra i quali ovviamente Chiara Poggi, né alle famiglie, ai congiunti, altrettante vittime innocenti del terribile e parassitario sistema mediatico nostrano.

Non è neanche nelle mie più lontane intenzioni mancare di rispetto a qualcuno, quanto identificare – seppur provocatoriamente – le ragioni di un interesse, direi a questo punto morboso, che gli italiani hanno per la cronaca nera.

Sono circa tre settimane che interagisco con gente che vuole parlarmi di Garlasco, del delitto di Garlasco, del massacro di Garlasco, del sacrificio rituale di Garlasco.
“NON HAI IDEA DI QUALI AGGIORNAMENTI CI SIANO SUL CASO!
NON PUOI IMMAGINARE!”

È decisamente il Twin Peaks italiano, che come il Twin Peaks originale – e qui vi deluderò amici Lynchiani – m’ha fatto addormentare dopo dieci minuti.

DEL DELITTO DI GARLASCO IO NON VOGLIO SAPERNE NULLA,
IO DEI CASI DI CRONACA E DEGLI OMICIDI NON VOGLIO LA VERITÀ, VOGLIO LE VIBES,
COME LE VOLETE TUTTI VOI!
Abbiate il coraggio di dirlo!

Chi non desidera quell’intrigo, che è paragonabile allo sfregamento di mani che Lucarelli poneva in essere, ogni volta che un omicidio avveniva in provincia di Bologna? Così che il conduttore potesse lasciarsi andare a un interminabile monologo di descrizione della provincia emiliana, accompagnato da un lamento jazz da night club.

PAURA EH?

Sarà che sono in sessione, sarà che sono troppo concentrato sulla mia insaziabile volontà di macinare denaro coordinando uno schema piramidale comodo comodo dalla mia camera in affitto a un prezzo spropositato, ma proprio non riesco a interessarmi di questa nuova stagione di uno dei delitti più amati dal pubblico Italiano.

Scrivo “nuova stagione” non a caso. Abbiamo vissuto sulle onde dei romanzi a puntate, poi dei film, adesso è giustamente tempo del prodotto di consumo prediletto dai tempi: le serie televisive. Verrà il momento dei delitti solfeggiati a mo’ di reel e edit (CI SIAMO GIÀ).

In alcun modo, con ciò, voglio dichiararmi totalmente estraneo alla narrazione subita, anzi. Garlasco è OVVIAMENTE materia anche del mio immaginario. Una parola che desta ansia, e sicuramente dispiacere per una vittima innocente, tutto incastonato in un paradossale contesto di vivide memorie di un’infanzia felice, spensierata, vissuta nel calore di una periferia italiana non ancora fatta a pezzi dalla crisi dei debiti sovrani.

Questo è l’autentico potere della narrazione vissuta come consumo: creare una sfera protetta in cui si possa rabbrividire, e poi tornare alla normalità come se nulla fosse.

Ciò mi porta a pensare che siano state proprio la periferia italiana, e con essa il ceto medio prosperato lontano dalle grandi città, le vere vittime di questo primo quarto di secolo, di questa prima frazione di millennio…

Anche quest’ultimo: un tipico delitto da primi-anni-2000-italiani, ovvero un classico degli omicidi per il quale gli inquirenti pare non ci abbiano capito una sega, o abbiano fatto finta di nulla, o abbiano incastrato degli innocenti. Tutto sempre da rifare, da rielaborare, da rivedere, da rivalutare, per il quale è necessario mandare il garzone nell’umido magazzino a cercare il faldone impolverato.

Ma è forse proprio da questa incapacità di chiudere i discorsi che nasce la morbosa passione per il true-crime? Per la cronaca nera?

Di certo non una passione nuova per il pubblico italiano. Si registrano affanni e interessamenti già nell’Italia del ‘600, ovvero nell’Italia di oggi: Clero, delinquenti, affittacamere, e germanici che vengono a farsi le vacanze e ad ammirare, con la dovuta distanza, i costumi di questo popolo latino nobile quanto misero.

Ma l’interesse per gli omicidi, la brutalità, il delitto, il massacro, i dettagli macabri, l’elaborazione degli scenari, l’esame delle vie di fuga, delle impronte, delle tracce, del profilo psicologico… non è frutto del mero interesse per le vicende, quanto per l’intreccio, la vibrazione letteraria, il brividino artistico di un popolo di provinciali che gioca a fare la borghesia delle grandi città e viceversa.

Fioriscono i canali YouTube sul True-Crime, i libri, le trasmissioni, le riviste, non di meno le facoltà di criminologia, gli studi, le disamine sui punti di vista e le tecniche da adottare per risolvere i casi. Ma qui il punto non è tanto risolvere, quanto raccontare.

Thomas de Quincey scrisse in modo OVVIAMENTE provocatorio L’assassinio come una delle belle arti. Il suo intento era setacciare, con una lente artistica, i casi di cronaca nera legati a noti personaggi storici, descrivendo con dovizia di particolari i dettagli “creativi” della brutalità umana.

Nel nostro caso si perde questo tono provocatorio, tipico da britannici cinici e istruiti, e si assume quello del finto tatto mediterraneo. Il delitto è per gli italiani un esercizio di stile collettivo, sia che sia praticato, sia che sia raccontato. Dal punto di vista narrativo, questa morbosità per i dettagli esprime solo una faccia (senz’altro misera) del know-how artistico-letterario di un popolo. E le vittime degli omicidi non sono quasi mai personaggi noti, ma persone normali, generalmente con vite ordinarie.

Ma andiamo con ordine.

“GARLASCO” è una Madeleine (un buondì della Motta): sprazzi di ricordi si riavvolgono come in una VHS registrata male. Memorie di quando ero un moccioso si depositano nel presente.

Ma è tutto confuso e, irrimediabilmente, ogni semplice conoscenza assimilata su questo caso di cronaca passa in sordina, in quella ingarbugliata matassa che è la memoria formalizzata da un bambino.

Forse è proprio per questo che il delitto di Garlasco non mi attira. Non voglio scoprirlo. Non voglio riaprire il cassetto. SONO LE VIBES del rievocare talune vibes che mi attirano, non la conoscenza.

La mia infanzia, e quindi non solo la mia, è stata scossa da tre colonne portanti della cronaca nera nostrana:

  • il delitto di Novi Ligure,
  • l’omicidio di Meredith Kercher,
  • la scomparsa di Sarah Scazzi.

Tre pilastri che decretano cronologicamente l’inizio, il picco, e la fine dell’infanzia, come di quella di ogni bambino nato alla fine degli anni ’90, e con un’adolescenza da vivere senza alcun governo Berlusconi in programma.

È emblematico che questi tre casi riguardino giovani, ragazzi poco più grandi di noi: ai tempi in età prepuberale. Vittime e aguzzini condividevano la giovane età: quasi un monito per noi infanti sull’orlo dell’adolescenza, quasi a voler dire:
basta poco a diventare vittime, ancora meno a diventare carnefici.

E sempre in merito a questi delitti: ricordo serate invernali, 10 di sera (QUANDO DICEVAMO LE “DIECI DI SERA” E NON LE VENTIDUE, DA VERI E ORGOGLIOSI TERRONI) mia madre che fa le parole crociate – tempi non inquinati dall’esistenza degli smartphone o dei video sui brufoli spremuti-, la mia figura stesa orizzontalmente, a pancia in giù, sul letto matrimoniale. Senza un briciolo di sonno, con gli occhi vispi puntati su Matrix (la trasmissione in seconda serata su Canale 5) assimilavo conoscenze sulla cronaca di un paese mai passato oltre la fase orale. Non ho ancora la televisione nella mia stanza, e andrò a dormire solo quando sarò distrutto.
Fabrizio Corona tira un pugno e si spacca una mano, io sono felice, non so di esserlo.


L’inverno bussa inascoltato sulle finestre della camera da letto. Fuori il paesello di periferia è freddo, e i punkabbestia si rannicchiano nelle cabine telefoniche abbandonate da pochi anni.
L’esercito di soldati di ferro di Tronchetti Provera ode tutto, ma non rivela nulla.
Pochi centimetri di cemento mi separano da quel mondo brutale, di luci offuscate, di urla, di nebbia, di sangue.
È la periferia italiana: oblio da cui emergono gli archetipi culturali che forgiano la Nazione, ma prima ancora le coscienze.

E ogni tanto, a Matrix, o Porta a Porta, in pieno dominio della seconda serata televisiva, si parla di casi di cronaca, come dell’omicidio di Garlasco.


Questa è l’Italia a cavallo tra anni Novanta e Primi 2000: il pizzetto, i capelli col gel, il “portatile”, la coppa del mondo, il tribale sopra le grazie fondoschienali delle odierne quarantenni, la vita bassa (Arbasino si sarà sentito un genio a intitolare così uno dei suoi ultimi saggi), la strage di Duisburg, e gli omicidi in cui nessuno capisce NIENTE. 

 
Sono gli anni in cui la periferia può guadagnarsi un posto nell’immaginario collettivo come scenario di barbarie e brutalità. Bella la città, belli gli intrighi, belle le orge di potere, ma la periferia è il vero centro nevralgico della vita, quella vera e non simulata. È l’Italia per la quale Stendhal avrebbe avuto brividi di piacere letterario, seguiti da un elegantissimo disgusto morale.

Pensate all’infausto (o fortunato) destino di Garlasco, di Novi Ligure, di Arce, di Cogne, di Cori…

Tutti luoghi della fantasia prima che della tragedia. Luoghi dell’elucubrazione, della valutazione di scenari possibili, dei pellegrinaggi dei curiosi.
Spazi liminali di cui siete al corrente solo in quanto cornici di delitti divenuti classici della narrazione. In un angolo remoto dell’ippocampo un televisore a tubo catodico è rimasto acceso per tutti, sintonizzato sulle vicende che abbiamo ascoltato, riascoltato, imparato a memoria per passività.
Fascicoli si richiudono o si riaprono. Verità solide non vengono mai raggiunte. Solo la precarietà a dettare non solo le verità giudiziarie ma anche la vita di chi passivamente o attivamente si nutre di macabre narrazioni collettive. Le nuove prove, i nuovi elementi a carico, i nuovi stravolgimenti come proiezioni della propria vita che si vorrebbe stravolgere e ribaltare, come fosse un’indagine o un processo.

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