Sull'inevitabilità del Collasso climatico

o come la democrazia non ci salverà

Sull'inevitabilità del Collasso climatico
Lettura boomer
Se il collasso climatico è inevitabile, siamo sicuri che la via democratica sia quella giusta per provare a fermarlo?

Questa non è la fine del mondo come la dipingevano nei vecchi film catastrofici. Qui, l’apocalisse non è epica, ma ridicola, ridotta a una cronaca su Instagram, mentre influencer ecologisti ci vendono borracce eco-sostenibili su TikTok tra un’inondazione e un black-out​. Il clima è diventato il grande meme tossico, l’ultimo turismificio della distruzione, dove non si viaggia più verso luoghi, ma verso dati climatici che sono sempre peggiori.

“Oggi 50 gradi, domani forse non ci svegliamo.”

Il tempo stesso si scioglie, e noi con esso. La Terra ha deciso che è ora di shitpostare l’umanità fuori dal ciclo cosmico. Il pianeta ci lancia memate in faccia: desertificazione, mari in ascesa, incendi che ci fanno assaporare la fine come se fosse il prossimo binge-watch estivo. Ma qui non c’è nessuna “Stagione 2”, solo un loop di sofferenza e devastazione. L’algoritmo naturale è impazzito​.

La «questione climate change» è diventata un argomento insopportabile da ascoltare nel dibattito politico e virtuale. Se un novizio (difficile che ce ne siano) dovesse avvicinarsi alla materia tramite il mondo politico o quello degli influencer, ne trarrebbe conclusioni schizofreniche, perché gran parte delle posizioni si sono così radicalizzate che ormai la dialettica versa su questioni ontologiche, ovvero sull’esistenza o meno del fenomeno. Tracciamo simbolicamente due estremi, che vanno dalle posizioni di gruppi come Ultima Generazione, secondo i quali anche un semplice prurito ai testicoli è causato dal surriscaldamento climatico, fino alla galassia trumpista, portabandiera del credo del cosiddetto «negazionismo climatico».

Il negazionismo trumpista è in verità una fregatura data in pasto agli stessi negazionisti, un semplice narcotico per nascondere interessi economici personali. Eccone un esempio.

Nel maggio del 2019 Mike Pompeo, fedelissimo di Trump, rilasciò al Consiglio dell’Artico le seguenti dichiarazioni da rappresentante statunitense:

«Le continue riduzioni dei ghiacci stanno aprendo nuovi passaggi e nuove opportunità per il commercio. Potrebbero diminuire di quasi 20 giorni il tempo necessario a viaggiare dall’Asia all’Occidente. Le vie marittime artiche potrebbero diventare i canali di Suez e di Panama del XXI secolo».

Insomma, dichiarazioni sporche, ma che dovrebbero mandare su di giri un sincero negazionista. Come si può notare, Pompeo non nega l’esistenza del fenomeno, anzi, per Pompeo e i suoi apparati il surriscaldamento globale esiste e ha effetti devastanti, come il totale scioglimento dei ghiacciai, solo che, molto ‘banalmente’, vede nella cosa una ghiotta opportunità per qualche big corporation da avvicinare.

Dall’altra parte della barricata, contro i finti e i sinceri negazionisti, ci sono gli alfieri della democrazia neoliberale, che si collocano tra i progressisti come riflesso della politica americana (non a caso, Joe Biden prima e Kamala Harris dopo, durante questi giorni di campagna elettorale, hanno più volte fatto appello agli americani chiedendo loro di votare il suo partito per “difendere la democrazia”): costoro sono solo e soltanto spacciatori di greenwashing. Sono vittima (se non proprio gli artefici stessi) dell’ennesima illusione capital-occidentale.

Nelle controverse logiche della democrazia neoliberale, un vecchiopovero stronzoche sbaglia a cestinare la differenziata viene multato dalla ditta responsabile dello smaltimento dei rifiuti del suo comune. Mentre il povero stronzo si appresta a pagare la sua multa, Taylor Swift è sul suo jet privato per un volo intercontinentale al fine di saziare la sua voglia di cheescake parigina; contemporaneamente, Jeff Bezos ha parcheggiato il suo ‘yacht’ (sarebbe più giusto chiamarlo ‘città-mobile’) per un tempo illimitato al largo dell’isola di Stromboli; una qualsiasi società qatariota trivella i ghiacciai della Groenlandia per servire ad annoiati ricconi ghiaccio di alta qualità in locali super chic di Dubai, dove Chiara Ferragni è andata e tornata in giornata per concedersi un aperitivo alternativo con le amiche. Secondo le leggi imposte dalle attuali democrazie, il danno all’ambiente è stato fatto dal vecchio, legalmente sanzionabile a differenza di tutti gli altri.

Produci (green).

Consuma (green).

Crepa [green(?)].

Lo slogan più utilizzato dagli ambientalisti è l’imperativo categorico, con tanto di pluralia maiestatis, «dobbiamo salvare il pianeta». Ma il complemento oggetto di questa frase è errato, perché il pianeta, inquinato, surriscaldato o sommerso che sia, continuerà ad esistere fino a che il Sole non lo inghiottirà tra milioni di anni. Infatti, più che il pianeta, dovremmo «salvare noi stessi» in quanto specie umana. Questo fatto era ben chiaro a uno scrittore di fantascienza atipico come J. G. Ballard. Oltre mezzo secolo fa, quando il termine «surriscaldamento globale» non era stato ancora sdoganato, Ballard aveva ben compreso come stavano le cose. Nel suo romanzo Il mondo sommerso (1962), Ballard ambienta la storia in un futuro in cui il crescente aumento delle temperature ha fatto sciogliere interamente le calotte polari. Le città sono totalmente sommerse e gran parte del globo è caratterizzato da un clima lagunare e tropicale. Molte specie si sono estinte, altre sono in via di estinzione (gli umani, ridotti a 5 milioni di individui sparpagliati nel polo Nord e in Groenlandia), altre ancora sono invece diventate le specie dominanti, come le iguane, evocatrici di tempi ancestrali:

«Lungo il canale, appollaiate nelle finestre dei palazzi e dei magazzini, le iguane li osservavano passare, muovendo a scatti impercettibili le teste dall’aspetto marmoreo […] Guardando quelle teste antiche e impassibili, Kerans poteva capire la strana paura che esse suscitavano, riattizzando arcaiche memorie delle giungle terrificanti del Paleocene, quando i rettili erano stati costretti ad abdicare di fronte all’evoluzione dei mammiferi, e percepiva con stordente chiarezza l’ostilità implacabile che una classe zoologica prova nei confronti di un’altra che ne ha usurpato il posto»

Più che un Pianeta devastato, nelle minute descrizioni di Ballard il Pianeta sembra essere vivo, più vivo che mai, pienamente vivo nonostante l’inquinamento e lo scioglimento dei ghiacciai. Anche se il leitmotiv del libro di Ballard sia incentrato sul fatto che cambiamenti climatici non abbiano solo effetti “naturali” sull’ambiente ma anche, e soprattutto, sulla psicologia umana (e qui non ci si riferisce affatto all’ecoansia, bensì a una regressione della psiche umana a livello di inconscio collettivo che porta i protagonisti ad entrare in simbiosi con una natura preistorica tornata dal passato), mi è anche sembrato evidente, nel ‘sottotesto’ dell’opera, che il Pianeta non ha bisogno di noi per salvarsi. Il Pianeta andrà avanti, in qualsiasi condizione (certo, non è detto che sia proprio il ballardiano mondo lagunar-tropicale). Noi, invece, ci estingueremo molto banalmente, senza che nessun’altra specie si ricordi di noi, senza nemmeno la consolazione di un’epica apocalissi (come i dinosauri).

Amaro dessert:

la democrazia non ci salverà.

Se le cose stanno davvero come l’ambientalismo progressista sostiene, allora bisognerà ammettere che il sistema democratico va abbandonato. Gli ambientalisti di tutto il mondo dovrebbe dirlo apertamente piuttosto che allarmare e basta. Se gli interventi sono così urgenti, se la questione viene affrontata con questi accenti esistenziali, la verità è che la democrazia liberale occidentale ci condannerà all’estinzione in meno di duecento anni. Sul fascino delle elezioni democratiche attuali la vedo come Land1 («Dal momento che vincere alle elezioni è innanzitutto una questione di compravendita di voti ‒ e tenendo bene a mente che gli organi di informazione (il sistema educativo e i media) non sono di certo più impervi alla corruzione dell’elettorato stesso ‒ se ne potrebbe concludere che un politico modesto non sia nient’altro che un politico incompetente») e Fisher2 («c’è stato un tempo in cui le elezioni almeno sembravano significare qualcosa…c’è ancora qualcuno che ama illudersi che un’amministrazione conservatrice sarebbe molto peggio del New Labour»). La democrazia non è adatta a risolvere tempestivamente problemi di natura strutturale e quando i governi occidentali hanno percepito una minaccia che sembrava esistenziale – la pandemia da Covid – la scelta è stata la via cinese al lockdown e decine di poliziotti che inseguono un runner su una spiaggia deserta. Non si può pensare di «salvare il pianeta» se non con misure illiberali, tempestive, totali, piani quinquennali dannosi per l’economia capitalista e che sospendono le attuali ‘libertà’ garantite.

E sarebbe anche onesto chiedersi: ma noi siam disposti a perdere tutto questo? Lo desideriamo realmente? Saremmo realmente capaci di vivere una performata società del controllo (decisamente più autoritaria di quella attuale) e a fare sacrifici quasi disumani per non finire nella pattumiera della Storia?

Riusciremo a rinunciare a Deliveroo, a due auto per famiglia, a consumo costante di carne, a Netflix, all’instagrammabilità turistica e a quel libidinale desiderio di felicità legato all’acquisto?

E tale questione, tanto nel ridicolo mainstream quanto nell’attivismo da perfomance dell’internet, viene costantemente omessa, coperta da isterie greenwashing, negazionismi ontologici, vernici lavabili e manie di protagonismo.

  1.  N. Land, Illuminismo Oscuro, GOG, 2022. ↩︎
  2. M. Fisher, Il nostro desiderio e senza nome, Minimum Fax, 2020. ↩︎

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