Ho perso la tessera elettorale due settimane dopo che mi è arrivata. Non è una scusa, non me n’è mai fregato nulla di andare a rifarla.
Penso che la pratica sia pure piuttosto semplice.
È che proprio non mi va.
Non ho mai votato perché non ci credo. Non ho mai fatto questo atto di fede che sembrano fare tutti quanti con smodato compiacimento. Mi hanno detto che così facendo sto rinunciando a partecipare alla cosa pubblica; sono abbastanza d’accordo.
Che non ha alcun effetto, il non voto è ininfluente a livello politico; giuridicamente inopinabile.
Che sto rinunciando alla mia libertà; non mi spingerei a tanto. Che sono un’irresponsabile; anche meno. Non sto qui a menarmela, non ho votato perché non avevo alcuna voglia, quelle domeniche o lunedì che fossero, di alzare il culo e mettermi in fila davanti alla scuola di turno (non so neanche quale sia quella del mio quartiere) a esprimere la mia preferenza sull’assetto del Parlamento, o, Dio me ne scampi
, su questa o quell’altra norma incomprensibile da abrogare. Addurrò altre giustificazioni, più o meno condivisibili a seconda del temperamento e delle ideologie, ma la più radicata e inscalfibile rimarrà per sempre questa.
Il mio sollazzo domenicale ha contribuito molto di più alla salute psicologica del paese, ne sono certo.
Non trovo che votare sia di per sé ridicolo, anzi è certamente sensato. Dovessi trovarmi su un’isola con qualche altro primate dotato di intelligenza e forza fisica paragonabile, dopo esserci picchiati e stuprati un po’ a vicenda, penso scenderemmo a patti anche noi sulla necessità di una qualche forma di suffragio per prendere decisioni che riguardano tutti. Perché ha senso.
Non sarà il migliore dei sistemi, sicuramente non è il più efficiente, ma ha pienamente senso.
Mi rendono dubbioso però le reazioni di quelle bravissime ragazze – che passano la parte migliore delle loro giornate a contenere un collasso isterico – se stuzzicate sul tema. La conversazione inizia educatamente, ma l’acidità sommessa delle loro prime battute rivela già il guaio di conversazione in cui ci siamo cacciati.
Questo perché nel loro manuale ideologico, nella stessa pagina dove è recitato l’articolo votare è il diritto più importante della vostra esistenza sociale, non è un diritto ma un dovere, poco sotto si può leggere ogni opposizione può essere risolta, la casa della pace è fondata sul confronto e sul dialogo. Non fosse che la ragione è dalla loro parte, e l’acrimonia del colloquio è dissimulata in proporzione al decorso e al dosaggio della terapia farmacologica che seguono queste rette cittadine.
Ciò detto non è solo per fare il bastian contrario che non voto – chiaramente un po’ in realtà. Ma trovo che un istinto sano dovrebbe quantomeno diffidare di qualsiasi sistema di legittimazione politica che venga osannato dallo stesso potere costituito.
In generale, quando un diritto rasenta le fattezze di un dovere, un cortocircuito politico o giuridico deve avere avuto luogo.
Certo non è che qualcuno mi obbliga a votare, posso liberamente non farlo, ma siamo tutti d’accordo che nei salotti giusti si grida al sacrilegio e al vilipendio. O almeno sicuramente sarò costretto a giustificare la mia libera scelta, mentre non lo è mai chi ha deciso di usufruire di questo diritto.
Votare è virtuoso, certo.
Le virtù civiche prevedono la disposizione a partecipare alla cosa pubblica, sia pure entro i limiti dell’ininfluente pratica di esprime 1/40.000.000 (In Italia) della volontà popolare. In fin dei conti la propria parte la si è fatta. Certo, nella saccente persuasione privata che la nostra opinione in materia magari vale più di quella del nostro meccanico, ma nell’altrettanto saccente convinzione che questa persuasione non vada mai confessata pubblicamente.
Mia zia, per dire, ha un evidente ritardo mentale. Basta vedere come si veste per convincersene. Ha votato M5S all’ultima tornata; ora le piace la Meloni perché è una donna forte. E basta. Solo per questo. Non rinuncerebbe per nulla al mondo al suo diritto di voto, e, per qualsiasi cerimonia che ci obbliga a congiungerci, mi rende partecipe delle follie che legge su Uozapp, strillandomele addosso.
Vivaddio. Buon per lei.
Sono felice di vivere in un mondo in cui anche una povera anima come la sua gode dell’illusione di una qualche voce in capitolo sul decorso dell’entropia universale. Ma dovrei ingoiare una buona dose d’ipocrisia – e lo faccio più o meno a ogni pranzo di Natale
– prima di ammettere che la mia città, il mio paese, e il mondo intero non sarebbero un posto migliore, o quantomeno gestito meglio, se mia zia non fosse chiamata a prendere alcuna decisione su alcuna materia.
Tutto questo per dire che non ci trovo nulla di non virtuoso nel supporre, quando vengo chiamato alle urne, che forse vivo immerso in una bolla opaca che non mi permette di constatare quanto stupide, ì insensate e, alla lunga, pericolose siano le mie opinioni su qualsivoglia tema. Trovo invece oltraggiosamente arrogante il contrario. A volte quando sono fuori a bere una cosa provo a immaginare se non sono l’amico down che i miei amici si portano in giro per fargli prendere un po’ d’aria.
Cerco nei loro sguardi qualche indizio di pietosa compassione. La trovo una pratica molto più democratica di leggersi i programmi dei partiti. Ma al tempo stesso la nostra Costituzione garantisce il diritto a illudersi della consistenza delle proprie pretese. Quindi ciascuno faccia quel che gli pare.
Semplicemente, come Bartleby, Preferisco di no.
Il vero motivo per cui non voto però, oltre la mendace insicurezza circa le mie facoltà, è che, come ho detto sopra, non ci credo. Non credo al gioco. E non sono l’unico. Appartengo all’unico partito che abbia espresso una sincera maggioranza nei paesi occidentali negli ultimi decenni, e che tutti i sondaggi danno in inarrestabile ascesa.
Quelli a cui non gliene sbatte un cazzo di votare.
Semplicemente perché non se la danno a bere. Non gli interessa il gioco della politica. La politica della tivvù, fondata sul fallace dogma della rappresentanza. La volubilità delle posizioni, la vita effimera dei programmi, l’arroganza e l’egocentrismo dei politici; sono tutte cose evidenti e alla luce del giorno, quasi banali da ripetere. Hanno un motivo di essere, è chiaro.
E la messa in scena ha tutta l’aria di un gioco di ruoli. Gioco che ha delle conseguenze sul reale, sicuramente, ma tanto quanto ce l’ha qualsiasi altra forma di associazione che non voglia perciò pretendersi politica.
È un gioco.
Come tale funziona solo se preso seriamente, con immedesimazione. Adesso ne constatiamo la scaduta farsesca. Qualche decennio fa le cose erano diverse, ma erano pur sempre dei bambini cresciuti troppo in fretta a gambizzarsi e ammazzarsi per le strade della Balduina.
Avevano voglia di giocare. Noi rossi, noi neri. Obiettivo fare più punti. Vinci se gli altri si arrendono. Giusva lo confessa, tornato dall’America (cfr. Borghesia Violenta a ‘na certa): in classe si trovava bene solo con quelli che come lui facevano politica, anche se erano gli stessi che poi, qualche ora dopo che era suonata l’ultima campanella, gli si palesavano davanti con le mazze in mano e qualche amico.
Bisogna essere simili per giocare insieme, sennò non c’è gusto.
Non ci credo, semplicemente, nella politica. Per carità, è un gioco entusiasmante, e, preso seriamente, dà di che riempire la vita. Di sicuro può rinvigorire le conversazioni nei momenti morti. C’è tanta gente che mi sta simpatica ma con cui non so di che parlare alla quale in questi giorni chiedo chi voteranno il 25/09
.
Tanto per confermare la nostra amicizia, scongiurando il silenzio.
Non che m’interessi veramente, sennò la filippica di cui sopra non avrebbe senso. Si può anche arrivare a fare del bene, in politica, non c’è dubbio. Ma non ho tempo e voglia per giocare a un gioco che non si confessi tale.
(Votare, votare, votare. Preferisco il rumore del mare)
Credo, piuttosto, nelle piccole comunità che non sanno di essere tali, sempre sull’orlo delle loro scomparsa. Credo che ci sia vita solo dove ogni rappresentazione è impossibile. E la rappresentanza è una natura morta, un’illusione estetica, una trovata efficiente. Ma nasce proprio dal fatto che i fiori appassiscono e muoiono. E c’è chi non la sopporta questa cosa, chi gioca al gioco degli eterni, delle grandi opere, dei libri di storia. Io, come tanti altri, vivo e basta. E nessuno può farlo al posto mio.
Gli dèi, racconta Nietzsche, scomparvero in una risata, al cospetto del Dio che si pretendeva unico. Sta avvenendo una cosa simile con la politica. Sta morendo non sotto i colpi di un movimentooppositivo, ma perché la gente ha di meglio da fare. Sotto una certa soglia, al 65, al 70, al 75% di astensionismo, che senso avrà continuare a prendersi in giro? Come lo siamo diventati per la religione, presto diventeremo troppo maturi anche per la politica.
Le cambieremo nome.
Diventerà il Congresso Popolare per la Gestione della Cassa Comune. E chi vorrà metterci la sua parte lo farà.
Buon per lui, tra l’altro. L’interno della Cattedrale di Palermo fa veramente cagare.