“Un giovanotto a Sanremo ha distrutto a pedate il palcoscenico infiorato. Mi domando perché nessuno abbia riempito di calci in culo questo bullo. Mistero”.
(Vittorio Feltri, 8 febbraio 2023)
A volte esistiamo per un istante, molto più spesso in quell’istante riusciamo a scomparire per sempre. A discapito di quei quindici minuti di celebrità paventati da quel fricchettone di Andy Warhol, la celebrità non esiste più, se non per qualche centesimo di secondo. Essa è tutta ridotta a una micro-esplosione. Come mangiare un’ostrica. O un orgasmo. Poi, è tutto finito. Sepolto. Sei morto.
Riccardo Fabbriconi è il vero nome di Blanco. Fabbriconi
non è un nome da celebrità. Blanco
forse si avvicina ad esserlo. Di certo, invece, il nome Riccardo risente di un complesso di inferiorità che lo subordina all’albionico Cuor di Leone e al teutonico Wagner. Poco conta, Blanco ha scelto la chiarezza della banalità. Il candore del bianco, sporcato di sudore. Ma ai nostri giorni non è più provocatorio vestirsi di bianco in assenza di purezza.
Vent’anni oggi– è nato il 10 febbraio del 2003 –, Blanco ha il volto di un diavolo, lo sguardo famelico, il corpo diafano di un fantasma, gli occhi – bianchi – rivoltati di un rettile, la lingua puntuta e affilata della vipera o del drago. Si direbbe che possa sputare fuoco, o anche solo sputare: questo già ci basta.
Una colossale levata di scudi all’italiana ha condannato all’unisono Blanco, che, nel suo delirio infernale, assatanato, ha devastato la scenografia floreale del palcoscenico di Sanremo. Il palco – malgrado i fiori, tutt’altro che barocco – era stato infatti cosparso di prestigiose composizioni realizzate con i famosi fiori sanremesi. Ora, già il fatto che un luogo possa essere famoso per un festival di musica leggera e per i suoi fiori, ci fa capire come Sanremo sia nient’altro che l’equivalente mediterraneo di quella cloaca che è Amsterdam. Il che è tutto dire. Ad ogni modo, Blanco non sente la base
– dice – e quindi, per divertirsi, fa strage di fiori
, al pari di Orlando che squarcia rocce e abeti alla vista delle scritte d’amore di Angelica e Medoro.
Tagliò lo scritto e 'l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe' le minute schegge.
Infelice quell'antro, ed ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!(Ludovico Ariosto, Orlando Furioso XXIII, 130)
I fischi del pubblico benpensante sanremese – agghindato di fronzoli e velluti – diventano la nuova base musicale di Blanco, che in quegli ululati si crogiola, che di quel disprezzo si nutre avidamente. Blanco è morto nel giorno del suo massimo successo – mèmico, social, storico – dell’apice dei suoi begl’anni. Il volto candido e il corpo tatuato, tutto si abbrutisce agli occhi di chi, l’anno scorso, l’aveva osannato, conquistato da quelle interpretazioni da «Brividi». Blanco è morto; e non è mai stato così vivo.
“Oh Morte, il tuo richiamo turba come quello della voluttà!”
(Pierre Drieu La Rochelle, Trittico della morte I, in Interrogation)
Dev'esserci una regola.
Lo so per certo: deve esistere una legge
. Un assioma che spinga gli artisti ad autodistruggersi
, a cibarsi della decadenza fino ad esserne vittime gaudenti. Accadde a Drieu La Rochelle, poeta francese dall’inchiostro col sapore del sangue rappreso. Una vita a cercare di distruggersi. Vittima di sé stesso, quanto del mondo
– obbrobrioso – che lo circondava.
Vedeva la decadenza. Viveva la decadenza. La combatteva dall'interno
. Ma forse, dopo le trincee del fronte francese, dentro le quali militò durante la Grande Guerra… forse, dopo quei momenti di vero sangue, anche lui si era adagiato nella decadenza. Finché non scelse la morte.
Morirò, però avrò una sporca agonia.
Non sarà la morte di una bestia
la cui rivolta resti sconosciuta.
Ma amo più il mio sangue del mio inchiostro.
Che importa se sono brtto. Che importa se
supplico
nel mezzo del supplizio. Che importa se faccio
il bambino o la donna.
Che importa se mi sporco.
Lo so. Creperò liricamente.(Pierre Drieu La Rochelle, Perorazione, in Fond de cantine)
Calpestare i fiori, simulacri di una pace farlocca, di una gioia artefatta; imbrattare e disonorare un palcoscenico ammuffito, polveroso, popolato da mummie, morti viventi; dissacrare i simboli imbellettati di una modernità che puzza di vecchiume. È puro slancio aristocratico. Blanco è La Rochelle quando scrive:
«Non posso impedirmi di guardare in continuazione le persone intorno a me, e questo è un grande peccato, perché più le guardo e più le odio. Un odio tranquillo, dolce, gioviale, che forse non le ferisce mai, ma sicuramente ferisce me. Non sarebbe più sano odiarle attivamente, invadendole, sfruttandole?»
(Pierre Drieu La Rochelle, Diario di un delicato)
o il d’Annunzio dell’Hic manebimus optime fiumano.
Su questo palco staremo benissimo, a marcire fino alla desolazione.
Il deserto cresce –
diceva Nietzsche
– E nel deserto non crescono fiori.