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IL FASCISMO NON È UN PROBLEMA

È solo una pessima soluzione

IL FASCISMO NON È UN PROBLEMA
Lettura boomer
Il Paese è bloccato in un loop di caccia alle streghe e raduni cringe.

Dopo 80 anni dalla fine del regime, non siamo ancora concordi se dobbiamo celebrare, pentirci, o fingere di non esserci mai stati. Pure Re Carlo pare abbia questa confusione quando nel nostro Parlamento ha ricordato di quando insieme abbiamo sconfitto il nazifascismo: mezza bugia nel migliore dei casi, gaslighting nel peggiore.

Dal trauma subito dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, il nostro paese soffre di un acuto disturbo bipolare – istrionico, che ci condanna a una rappresentazione teatrale eterna: da una parte l’antifascismo, ridotto a caricatura paranoica della sua nobile origine partigiana, e dall’altra parte lo pseudo-fascismo, spesso passatista, a volte volgare e sempre di facciata. All’ombra di questa finzione permanente, la classe dirigente di questo Paese – priva di sovranità in politica estera per sudditanza agli Stati Uniti, e in politica economica per subordinazione all’Unione Europea e ai creditori – si limita a spartirsi quel che resta, senza riguardo né per Pertini né per Mussolini.

Se ci fossimo liberati dal Fascismo in modo autonomo e in una situazione meno tumultuosa, forse saremmo riusciti a farne l’autopsia invece che limitarci a buttarlo nella fossa comune della storia. Avremmo potuto osservarne le viscere con più lucidità e scoprire che gran parte di ciò che conteneva non era altro che materiale riciclato e ribrandizzato in chiave totalitaria per convenienza politica.

Ma così non fu. I nostri nonni, comprensibilmente nauseati, gettarono via la carcassa intera con uno slancio rabbioso, incuranti di ciò che avrebbe potuto nutrire la neonata Repubblica – o dei fantasmi che avremmo ritrovato a infestare il dibattito pubblico decenni dopo.

E allora, viene da chiedersi: cosa salvare del putrido cadavere? Gli outfit total black? Il flow teatrale dei discorsi dal balcone? Le paludi che arrivavano in orario?

Manifesto di San Sepolcro – 1919 (Difficile non condividere la rappresentazione dei lavoratori nel sistema decisionale, la redistribuzione della ricchezza, la tassazione dei profitti di guerra e la prevalenza dell’interesse nazionale negli affari esteri.)

Come osservava con notevole acume Robert Ardrey, etologo, commediografo e ispiratore di Kissinger, l’Italia non è mai stata una vera nazione, ma un noyau — un nucleo instabile, senza cuore né testa, ma stranamente difficile da uccidere. La celebre frase attribuita a Cavour, «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani», resta un progetto lasciato sul tavolo. Dallo Stato Sabaudo il fascismo ereditò la missione di trasformare l’Italia in una Nazione, lasciando incompiuta l’opera alla sua morte.

Secondo Ardrey, l’Italia si regge su una costellazione di periferie in lotta permanente, antagonismi interni e un potere tanto flessibile quanto privo di identità. Può perdere un arto e continuare a camminare, può smarrire intere porzioni di sé e poi ritrovarle secoli dopo, senza che nessuno lo noti. È un paese dove il fragore delle faide intestine simula la presenza di un pericolo reale, ma alla fine si litiga per sport, più che per sopravvivenza. E non si muore per la patria, perché la patria è rimasta un’idea vaga, mai veramente incarnata.

Nel noyau, non si cercano compromessi: ci si accanisce in tempeste emotive, si urla anziché mediare. Le Nazioni generano eroi. I noyaux – dice Ardrey – producono geni solitari, capaci di grandi cose solo perché liberati dal peso della collettività. Ma anche questo ha un costo: fiducia sociale ai minimi storici, solidarietà praticamente assente, vulnerabilità estrema tanto individuale quanto collettiva. Ed è così che gli italiani hanno imparato a cavarsela, contribuendo alla civiltà più con i Leonardo e i Dante che con la forza di un corpo nazionale coeso.

In questo senso, il fallimento del fascismo come progetto nazionale non è solo morale o politico, ma strutturale. E nel non saper distinguere tra ciò che era corrotto e ciò che poteva (doveva) essere riformato e riutilizzato in quanto originato da una necessità precedente al fascismo, abbiamo finito col buttare via il bambino insieme all’acqua sporca, lasciando intatti i problemi di fondo e noi privi delle regole e degli strumenti di base per sopravvivere come Stato-Nazione.

Prima o poi i nodi vengono sempre al pettine, ed eccoci qui, dopo tre generazioni di narrazione pacifista e di demonizzazione dello strumento militare (associato al regime e alle sue guerre) che ci viene richiesto, oggi, di supportare un nuovo debito per un non ben definito riarmo europeo e domani, magari di crepare in qualche sudicio buco dell’Est Europa, ignorando completamente le basi culturali condivise necessarie per poter realmente fare la Guerra.

Siamo qui, partecipanti passivi e per metà astenuti di una democrazia in fase terminale di involuzione in oclocrazia. Siamo piagati da una cancrena da egoismo che ci costa 100 miliardi all’anno in evasione fiscale e assuefatti al calcio, nel quale sublimiamo il naturale bisogno di senso di appartenenza e di scontro, soddisfatto in società più civili attraverso la partecipazione politica e nella competizione internazionale.

Inutile discuterne a Sinistra, non ammetterebbero mai che andrebbe recuperato qualcosa, ora che, abbandonati i diritti dei lavoratori, trovano la loro raison d’être nell’essere “Anti”, peggio ancora parlarne con i liberali al Centro: quelli pensano che lo Stato sia un’azienda, i politici manager e i cittadini asset con le gambe. Per esclusione dunque la responsabilità ricade sulla Destra.

Valle de los Caídos, Spagna – Su volontà di Francisco Franco, in questo monumento furono sepolti insieme i caduti fascisti e repubblicani della Guerra Civile Spagnola.

Se i sopracitati buttano via anche il necessario, non ho mai capito perché a Destra invece ci si ostini a trascinare ovunque si vada la salma integrale del Fascismo, dopo quasi un secolo di marcescenza: è disgustosa e puzza. Per forza poi si viene accusati di venire dalle fogne.

Afflitti da una nostalgia canaglia, molti simpatizzanti del fascio ricordano il Ventennio come l’ultimo periodo di potenza, indipendenza e prestigio dell’Italia.

E hanno ragione.

Il problema è che si dimenticano perché quel periodo si sia concluso. Il fascismo instaurò un sistema fondato su un elitismo di massa, corrotto da un servilismo diffuso, che permise a un uomo profondamente narcisista di ballarsi un'intera nazione in una guerra impossibile contro le maggiori potenze mondiali. Anche nell’ipotesi in cui l’Italia fosse risultata tra i vincitori, nel migliore dei casi avrebbe occupato una posizione subordinata nella sfera d’influenza del Deutsches Reich – proprio come oggi ci troviamo, nella condizione di clientes, all’interno dell’American Empire.

Non è possibile essere nazionalisti e fascisti allo stesso tempo. La fedeltà alla propria collettività entra in contrapposizione con la sottomissione totale che il fascismo richiede nei confronti del partito e del leader. Questa contraddizione può rimanere carsica per molto tempo, ma è destinata ad affiorare nei momenti di crisi, come accadde in Italia il 25 luglio 1943, con la destituzione di Mussolini, e in Germania nel 1944, con la cospirazione degli alti ufficiali che tentarono di assassinare Hitler.

Ricordiamo inoltre che è proprio per colpa di quella farsa ideologica che abbiamo perso tutto: influenza, colonie, sovranità. E anche ammesso che fosse praticabile, perché mai dovremmo abbracciare una dottrina antiquata, incapace di offrire una bussola credibile per orientarci tra le grandi sfide del presente — dalla piena automazione all’intelligenza artificiale, dall’ingegneria genetica alla conquista dello spazio?

Storicizzare l’accaduto e fare i conti con il nostro passato è il cicatrizzante sociale necessario, affinché un giorno non sia più necessario festeggiare il 25 Aprile o fare i tour a Predappio, così come nessuno ritiene sensato oggi celebrare la morte di Napoleone o quella di Radetzky.

Occorre accelerare, andare oltre.

Prendiamo ciò che serve, buttiamo via il resto e costruiamo qualcosa di nuovo.

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