Che sbronza.
Che è successo ieri?
Non ricordiamo bene, c’era un uomo su un balcone vestito di nero che si agitava, poi fumo, sangue e acciaio…abbiamo forse fatto una rissa? Abbiamo vinto o perso? Tentare di rammentare è un esercizio inutile, appena proviamo a mettere a fuoco i ricordi, ci attanaglia un intenso mal di testa.
Al diavolo lo Ieri, il problema è l’Oggi, anzi, l’Adesso.
Il suono della sveglia è fastidioso, allunghiamo la mano per provare a spegnerla e tornare a dormire. Stavamo facendo un bel sogno in fondo: eravamo pieni di soldi, al centro della festa, circondati da belle ragazze della televisione in vestiti succinti, molto meglio dell’agonia attuale.
Tentiamo di afferrare la sveglia, ma riusciamo solo a spingerla via goffamente. Mentre il crudele “drin drin” continua a torturarci, lo sguardo cade sulla nostra mano: è rugosa, vecchia, debole. Per quanto tempo abbiamo dormito?
Ottant’anni di pax americana hanno avuto un effetto narcotico su di Noi. Ci siamo lasciati cullare dalla sicurezza e dal benessere, finendo per credere che potessimo avere il secondo senza portare sulle nostre spalle la responsabilità della prima, unicum nella storia mondiale. La festa del Dopoguerra durò quel che è durata e ora ci ritroviamo in hangover incapaci di prendere decisioni in un mondo che non riconosciamo più alla fredda luce del mattino.
Ah! che belle storie ci siamo raccontati durante la festa!
La prima, la più dolce, era che "tutti ci amassero"
. Eh già, eravamo proprio convinti di essere i più popolari. Ci siamo sentiti come la reginetta della festa: inebriati dalla crescita economica, presi sottobraccio dall’ ingombrante ma rassicurante zio Sam, riuscivamo pure a flirtare (con moderazione) con il blocco Sovietico campando di rendita della nostra posizione privilegiata a cavallo tra i due. Abbiamo vissuto nell’illusione che il mondo intero ci guardasse con ammirazione, con quel misto di rispetto e invidia che si riserva solo ai veri vincenti.
Il nostro successo economico, i nostri valori democratici, la nostra cultura raffinata: chi poteva non amarci? Eravamo ( siamo? )
convinti che ogni Paese del mondo si alzasse la mattina sperando, nel profondo, di diventare un po’ più europeo, magari sognando di indossare un trench alla francese, di sorseggiare espresso italiano, o di organizzare un referendum in stile svizzero per decretare la lunghezza dei fili d’erba dei prati.
Ma adesso che rimettiamo insieme i pezzi, ostacolati da un mal di testa martellante che ci fa dubitare anche della nostra identità
, ci rendiamo conto che forse non era proprio così. Il resto del mondo, specialmente quelle ex colonie che ci ostiniamo a chiamare "Paesi in via di sviluppo"
come fossero eternamente adolescenti, non ci ha mai amato davvero
. Anzi, per essere onesti, ci tolleravano a malapena, e solo perché dovevano. Avrebbe mai potuto essere altrimenti? La nostra compagnia era solita pestarli a sangue
, e anche Noi nel nostro piccolo ci abbiamo messo qualcosa, come biasimarli quindi. Ah, che imbarazzo renderci conto che la Cina non rideva con noi ma di noi e che mentre ubriachi blablavamo della grandezza del nostro passato, l’India costruiva i presupposti per il sorpasso nel prossimo futuro.
Mentre ci massaggiamo le tempie, qualche flash delle violenze inflitte ci assale e ci rendiamo conto che probabilmente non saremo invitati alla prossima festa.
Forse ci hanno invidiato
, certo. I nostri centri storici, le università, i musei, tutto molto Instagrammabile. Ma amore? Questa è un’altra storia. Non hanno mai dimenticato gli orrori del colonialismo. Il nostro passato di conquista e "civilizzazione"
forzata, non ha lasciato un dolce ricordo di Noi nei cuori di questi popoli. I cosiddetti “Diritti Umani”
glieli abbiamo insegnati con la spada, e adesso che la festa è finita dobbiamo guardarci allo specchio: non siamo mai stati popolari come credevamo, solo temuti, ma ora che siamo vecchi, pochi e col cuore tenero, cosa siamo?
La seconda storiella di cui ci siamo convinti è quella di essere “i migliori di tutti”
. Durante la nostra sbornia egemonica, ci siamo crogiolati nell’idea che il nostro sistema di vita e la nostra democrazia fossero l’unico modello possibile. Abbiamo preteso di esportarlo senza renderci conto che a casa nostra iniziava a scarseggiare. Chi riceveva il nostro “prodotto”
, d’altra parte, avrebbe forse potuto apprezzarlo di più senza il packaging a forma di bomba in cui era stato confezionato.
Abbiamo bevuto troppo e ora abbiamo l’alito cattivo. Il resto del mondo non ci sta più appresso e non ci segue più come una volta.
L’ONU da efficiente veicolo del soft power a stelle e strisce e dei suoi clientes, utile a ratificare le azioni unilaterali dell’Impero ex-post come nel caso della guerra in Iraq e l’intervento in Serbia negli anni 90’, si sta trasformando in una scatola vuota ricalcando il destino del suo predecessore, la Società delle Nazioni. Per evitare questo epilogo forse avremmo dovuto cercare di calmare Mr. America, quando, strafatto di ubris nel mezzo del party ha iniziato a prendere a testate sul naso chiunque avesse vaghi tratti arabeggianti, ma ormai quel che è fatto è fatto.
Quando la Russia ha invaso l’Ucraina due anni fa, molti Stati, invece di levarsi in difesa della supposta legalità internazionale, hanno scelto il silenzio, come se stessero osservando una rissa fuori dal locale tra due sconosciuti. Le votazioni all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno svelato il segreto di Pulcinella: per gran parte del mondo, questo conflitto non è la lotta epica tra Bene e Male che i nostri telegiornali raccontano, ma solo un regolamento di conti tra potenze. Per molti, è più interessante ciò che le sanzioni possono offrire in termini di triangolazioni commerciali piuttosto che l’ipotetica questione morale.
Israele ha posto l’ultimo chiodo sulla bara della nostra credibilità internazionale, iniziando un genocidio in mondovisione, invadendo il Libano e sparando(ci) sulle truppe UNIFIL, tutto questo, mantenendo il supporto, diplomatico e militare dell’Occidente. La nostra influenza si è diluita come un cocktail annacquato a fine serata, di cui si è già bevuto il bevibile, e ora ci ritroviamo a reggere il bicchiere con solo ghiaccio sciolto. Continuiamo a ripetere i soliti brindisi, come un beone nostalgico che nessuno ascolta più. Intanto, il mondo ha già cambiato musica, alzando i bicchieri per brindare a cose che non conosciamo, in lingue che non comprendiamo.
Al picco dell’ebbrezza, nella nostra mente si è infine fatta strada la convinzione più pericolosa di tutte, quella dell’immortalità.
Per decenni ci siamo raccontati che, grazie alla nostra raffinata civiltà, la guerra fosse roba d’altri tempi, una barzelletta di cattivo gusto che nessuno avrebbe più osato raccontare, mentre attorno a noi non era mai passata di moda.
Abbiamo ridotto gli eserciti europei ad auxiliares delle legioni americane, più attrezzati per operazioni di “polizia internazionale”
contro sedicenti terroristi o stati canaglia che a un conflitto su larga scala. I nostri arsenali sono vuoti e le nostre difese si sono atrofizzate come il fegato di un bevitore incallito: dopo anni di trascuratezza non te ne accorgi subito, ma quando lo fai, è già troppo tardi. E mentre la cirrosi epatica ci limita nei movimenti, l’opinione pubblica continua a illudersi che la pace sia un diritto divino, scritto da qualche parte tra il welfare e la democrazia.
Che menti illuminate i nostri Padri Costituenti, che inserendo l’Art. 11 nella Costituzione pensavano di bandire la guerra dai nostri destini, avessero inserito anche il ripudio della morte, forse oggi saremmo immortali!
Ma ecco che le bombe esplodono di nuovo nel cuore dell’Europa, il Medio Oriente divampa, l’Algeria reclama parte della nostra ZEE, i Turchi si (ri)installano in Libia e la Tigre Cinese prepara il suo balzo su Taiwan. Improvvisamente ci rendiamo conto che forse tatuarci il simbolo della pace sul collo è stata una cazzata e che il pacifismo è la religione migliore se la seguono tutti, ma se così non è, allora è una condanna a morte per i propri fedeli.
Come chi si sveglia il giorno dopo il party e si accorge di aver svuotato il portafoglio in una notte di eccessi, ci rendiamo conto dell’ovvio: la pace non era gratis, stava solo pagando qualcun altro. Si è fatto tardi, l’America è stanca di dare il sangue dei suoi figli, non ci offrirà più un altro giro, e probabilmente, l’ultimo lo pagheremo noi. Alla fine il conto è arrivato, è più salato di quanto ci aspettassimo e nessuno è più disposto a saldarlo.
Oggi è un nuovo giorno.
Non ci è concesso di restare inebetiti sul letto, dobbiamo alzarci.
Ficchiamoci due dita in gola e vomitiamo tutte le stronzate che ci siamo bevuti: il capitalismo ci ha resi più ricchi in passato, ma la mano invisibile del mercato da un po’ ci mostra il terzo dito. Non possedere gli artigli non significa essere buoni né essere risparmiati dai conflitti; ci costringe solo a seguire chi ancora li ha nelle sue avventure. Il resto del mondo non vuole essere noi, anzi, spesso ritiene la nostra libertà e tolleranza una debolezza nel migliore dei casi, nel peggiore, sintomo di corruzione morale.
Sciacquiamoci il volto e facciamo un bagno di umiltà, prendiamo atto delle prospettive demografiche ed economiche dei prossimi 50 anni. Estendiamo l’ingresso al club Occidentale all’America Latina, prima che il progetto BRICS diventi qualcosa di più della farsa che è attualmente. Recuperiamo ciò che possiamo in Africa, offrendo non solo aiuti economici, ma competenze, tecnologia e, soprattutto, supporto militare per estirpare piaghe decennali come Boko Haram che ne impediscono lo sviluppo.
La tentazione di restare a letto o addirittura di farci un altro goccetto per non pensarci o per alleviare i sintomi del post-sbornia è alta, ma il prezzo che pagheremmo in quel caso lo sarebbe molto di più. La festa è finita.
Basta sognare il mondo per come dovrebbe essere; è ora di affrontarlo per quello che è.