Pippo Baudo è vivo

Funerale dell'ultimo vivo d'Italia

Pippo Baudo è vivo
Lettura boomer
Rito Voodoo in quel di Militello...

Militello, Catania. Paesello della piana catanese infuocata, piazza arroventata del Duomo. Ancora una volta mi stupisco del mio autocontrollo: sono ridotto a un mucchio di nervi, distrutto dalle autostrade sicule. Il Duomo, con la sua architettura suggestiva e inquietante, appare in qualche modo minaccioso, come abitato dal fantasma di entità primigenie che lo avevano costruito e adibito a un culto maledetto. 

Militello è nel vuoto, un paesino costruito dentro il nulla.

Non è una cerimonia: è l’ultimo pilot Rai mai andato in onda, un rito collettivo che sembra più palinsesto che addio. Io, gonzo–reporter infiltrato telefono, faccio la voce seria, rubo una postazione intera nella sala stampa occupata da Mediaset e Rai. Attorno a me un paese intero piange e ride, mescola lutto, lacrime e granite alla mandorla. È Baudo, signore e signori: il morto più vivo dei vivi, un’ectoplasmatica gloria del pomeriggio televisivo degli italiani che muove più corpi, più anime, più audience dei superstiti falliti della tv di oggi. Un rito voodoo collettivo.

Sono arrivato con A. D. G., il mio fotografo dall’occhio killer. Tre ore di tragitto in cui gli ho spiegato la demonologia crowleyana e dissertato di fica. In effetti tutto il viaggio aveva un alone satanico: l’unica maglia pulita che trovo prima di partire è una polo del Milan col diavoletto anni Settanta. Lui passa all’attacco della piazza: nessuno sconto, nessun filtro, solo la faccia di una nazione che si specchia nel feretro come in uno schermo catodico annerito. Scorrono i volti: Albano, politici fuori tempo massimo di finta destra, vecchi pretoriani della tv di Stato. Ma lui, Pippo Baudo, è più telegenico di loro: anche da morto buca lo schermo, è più vivo di tutti noi messi assieme.

Vedo la verità:

non stiamo celebrando un uomo, stiamo vegliando la nostra stessa televisione, il nostro stesso dopopranzo. È il funerale di un medium, di un sensitivo, di un massone.

Perché l’Italia si accalca qui? Perché siamo accidenti biologici, figli di un lockdown valoriale, appendici di un’idea malata: il figlio lo devi volere. E volere significa possedere. Così i gggiovani non solo sono vuoti, ma non hanno neanche gli strumenti per riempire questo vuoto. Non è che non hanno valori: non hanno neanche la crisi di valori. Il mondo è ancora nelle mani dei vecchi boomer, e i loro appelli a correre verso il futuro sono la caricatura estrema: un ottantacinquenne che invita alla velocità mentre tiene il freno a mano tirato da mezzo secolo. Sono loro i veri accelerazionisti.

I ragazzi di oggi non fanno barricata, niente appartenenza, solo la sensazione di essere in una strana linea temporale come Donnie Darko, che scopre di essere sopravvissuto a un incidente che non doveva avvenire. La sua vita assume un senso proprio quando scopre che è lui il problema, il bug nel sistema.

Il mio jet, come quello di Donnie, non cade. Resta sospeso nel cielo d’Italia come minaccia permanente. Appartengo alla prima generazione senza scopo. O forse no: siamo davvero nei tempi ultimi, i tempi della fine.

Intanto, da vero gonzo–reporter clandestino, mi sposto. Stavolta prendo possesso di un’intera postazione stampa e osservo: una miriade di inviati da tutta la provincia, un esodo catodico che termina nella sala regia della Rai, dove si fuma nervosamente. Le troupe Mediaset, con l’accento milanese dell’inviata, mi ricordano dopo anni quel tono da figa di legno. Una finestra sulla cattedrale di un paesino in lutto che sembra più una sagra che un funerale, dove le lacrime sanno di rosso dell’Etna biologico e le corone di fiori sono sponsor occulti. Spicca quella dei Pooh.

La televisione non muore con Baudo: era già morta. 

Ora ha solo il coraggio di recitare il proprio funerale davanti alle telecamere, nella maniera più becera della tv del pomeriggio. Un tenero pederasta di provincia, social media manager, si finge scopatore e quasi ci prova con me durante la pausa caffè davanti alla cattedrale barocca. Non lo voglio picchiare, mi trattengo, anche perché devo rientrare in sala stampa: sta per uscire la bara per il cimitero.

Qui, sotto il sole di Sicilia, si materializza, come nei funerali di quelli importati che contano davvero,  il bisogno di esistenza, di carne e sangue baroccheggianti. La gente si risente autorizzata all’esistenza.

Il mondo va in rovina, ma acceleriamo la rovina così almeno non facciamo nulla e chi verrà dopo se la vedrà. È l’ideologia dei pigri con citazioni da pdf. La filosofia come giustificazione all’inerzia: dopo di me, Netflix.

I boomer almeno avevano un piano (distruggere i padri). Oggi, invece, il massimo della rivolta è un thread su X con scritto il capitale va accelerato, una sentenza di vecchiume a cui solo i figli di papà radical accelerazionisti di sinistra fanno finta di credere. Una passione per la catastrofe che assomiglia più alla fila per l’apericena che all’insurrezione.

Baudo da morto ci guarda e ci frega ancora tutti: lui ha avuto share, obiettivi, un pubblico fedele. Noi, invece, senza mito e senza nemmeno la voglia di crearne uno, recitiamo la parte del pubblico di cartone. Ridiamo per finta, applaudiamo per finta. La natura aborre il vuoto, diceva Aristotele. Ma qui il vuoto è diventato programma in prima serata. Un funerale. È morto il conduttore, è morto Baudo, i vivi fanno tappezzeria.

Accelerare? No, signori: restare fermi è già il massimo della velocità consentita a questa Italia. Giusto così. È anche agosto.

Torno a Monreale. Mi sorpassa un motorino con un ragazzino e la scritta “I Diavoli” sulla schiena. Sincromisticismo mio. L’articolo, ho deciso, lo mando al Blast: gli altri sono chiusi per ferie.

Baudo è vivo.

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