Quanti giardini di aranci e limoni
Balconi traboccanti di gerani
Per Pasqua oppure quando ci si sposa
Usiamo per lavarci petali di rose
E le lucertole attraversano la strada.
Com'è diverso e uguale
Il loro mondo dal mio
(Giubbe Rosse - Franco Battiato)
Frame perfetto. Lo senti? È l'attimo dopo l'eterno, dove il tempo si ispessisce, diventa materia.
Sta tutto lì, in quei balconi traboccanti di gerani a festa. Ma lə nuovə predicatorə della (post)modernità, nel libro Femminismo Terrone, un'opera apparentemente tutta siciliana, sembrano non aver afferrato la substantia della sicilitudine, questione a mio avviso non tanto etnico-geografica, quanto archetipica.
Esploriamola!
Il siciliano, contrariamente alla percezione del PNN (Polentone Nativo di Non-luogo)
mitteleuropeo, che lo immagina "intrappolato" nella fatale e ancestrale lentezza dell'isola, calato in una sorta di oasi passatista buona per il "pheega mollo tutto e mi apro un chiringuito" e poco altro, vive, in realtà, di tutto il contrario.
La Sicilia non è passatista. È un dispositivo ultratemporale.
Nell'isola non si campa di arretratezza, ma di una densità temporale che supera il progresso superficiale. Ogni gesto del siciliano è carico di millenni di destino
, non portato avanti da Borbon-Norman-Arab-nostalgia, ma da una necessità sacra. Il concetto di accelereazione (è cosa nostra, no?) assume la forma di una rivelazione dell'apocalisse. Il futuro qui è già passato e il passato è proiettato avanti
: non c'è più confine tra le due e la funzione d'onda è già collassata.
È L'ultimo baluardo dell'eterno!
La Sicilia, nel suo eterno ritorno, non esplode verso l'esterno, ma implode, concentrando ogni frammento in una densità temporale feroce. Più accelera verso dentro, più comprime il tempo, rendendolo denso, pesante, quasi palpabile. È l'accelereazione assoluta, quella di un buco nero che riaggrega ogni istante in un vortice di possibilità ormai collassate. La Sicilia non segue la linea, la divora; è un portale antico, è il cuore che divora il tempo come Scilla si pappa i marinai.
La "sicilitudine" è lo strumento che dobbiamo usare per riscoprire l'identità del Sud e dell’uomo, ci riporta a un tempo diverso, paziente: né veloce né lento, ma giusto
. Uno scorrere del tempo che ci permette di ritrovare la nostra dimensione naturale, la nostra umanità più autentica
.
Non è un rifiuto dell'attuale in favore dell'antico, ma è la nostra arma per recuperare il perenne: un ritorno alla sostanza, a ciò che conta.
Il PNN sarà sempre proteso a qualche minchiə di futuro
, un miraggio meccanopatico di grattacieli e boschi verticali (polmoni verdi si, ma incatramati), nel disperato tentativo di aggiungere la cinquantaquattresima linea della metro per rendere la sua città sempre più europea (nessuno ha ancora capito che minchiə vuol dire).
Un ragazzo si sveglia ad Acitrezza e guarda una piazza che non può essere più perfetta di così, consumando la sua granita un po’ alla volta, scegliendo se mangiare la sua brioscia partendo dal tuppo o dalla base, mentre indeciso si volta periodicamente una volta guardando i faraglioni, l’altra ammirando il vulcano imbiancato: sta proprio in pett’ a crist’.
Cambiare qualcosa — anche fosse solo un grammo in più di zucchero del cannolo, quello che ha definito le domeniche della tua infanzia — significherebbe snaturarlo, spezzare l’incantesimo del proprio massimo asintotico. Ecco perché il siciliano sembra immobile: non è stasi, è consapevolezza assoluta che qualsiasi movimento, qualsiasi 'futuro' lo porterebbe via dall’apice, dal punto dove la sostanza di ciò che vive, trova la sua massima intensità.
Ogni medaglia ha il suo rovescio, la (legittima) difesa dell’interno è questione di sopravvivenza culturale. Una risposta necessaria per proteggere ciò che è sacro, la tutela dell’identità della “famiglia”, della comunità. Nel fare da guardiano al perenne il rischio è di trasformarsi nel proprio carceriere. Il familismo amorale e la prevaricazione mafiosa, sono la degenerazione della difesa del nucleo, un’ossessione di controllo che perverte la sacralità trasformandola in dominio, cose distanti dalla vera natura della sicilitudine.
Il comrade Sciascia gridava ad un immobilismo paralizzante, ma si sbaglia: è il motore dell’isola. Non è ancorata e immobile, ma radicata. Le radici non impediscono all'albero di crescere verso il cielo, gli danno la forza per farlo perché traggono la linfa vitale.
È un atto di ribellione contro l'omologazione? È semplicemente l’aspetto di chi vive di cose vere.
Gli è sfuggita l'occasione di tuffarsi in questa verità, osservando questi presunti limiti ma perdendosi la parte migliore della sicilianità.
Per ora ancora del caro Femminismo Terrone ci resta solo da dire:
Error 404: Terronaggine not found
Tornando al libro, questo si configura come una simpatica matrioska postmoderna, nato dalla necessità di due attiviste, Claudia Fauzia e Valentina Amenta, di ricevere rappresentanza terrona e queer tra le file del femminismo; ma da parte loro riceviamo solo una narrazione ideologica. Una narrazione che viene da un mondo troppo impegnato a stare appresso alle cancellanti culture ed a un politically correct che nega la realtà stessa, per parlare delle sue teorie di una ipotetica Sicilia colonizzata dall'uomo, rigorosamente: Cis-etero-bianco-abile-maschio-neurotipico-occidentale-sessista-tossico-elitista-suprematista-imperialista-fascista…
Qui cascano: il loro femminismo terrone non libera, ma ti preda per entrare nel frame vittimista, con la solita narrazione (ormai mainstream), attuata per perpetuare il mito dell’oppressə per natura. Ogni oppressione diventa un simbolo di debolezza innata. Sai cosa? Basta complessi di inferiorità mascherati da rivendicazione politica. Non ti vogliono liberare: ti convincono che sei intrinsecamente fragile.
Vittimismo che si riflette anche nell'ipersensibilità linguistica di queste piazze: ogni parola può essere un’offesa, e ogni narrazione alternativa è una minaccia.
Questa ideologia non combatte il potere, lo ridefinisce in base ai propri bisogni psicologici, se costruisce un linguaggio a tavolino per non offendere nessuno e per non mettere in discussione le idee, ha tolto la possibilità di parlare per dire qualcosa, bella maniera di sorvegliarti: una tote bag arcobaleno alla volta per inibire la tua guerriglia culturale.
Dell'ideologia le nostre due amichette del club di ✨gender studies✨ ne fanno marchetta:
Al di là del bellissimo titolo da sfoggiare a cena davanti ad un hamburger vegano-bio-cruelty-free-taste-free-IPA stando attenti a scansare le categorie della logica, le due malefimmine, hanno messo su proprio un bel programmino. Abbiamo davvero bisogno di altre teorie pseudo-radicali per il sud, quando la logica postmoderna di fondo è vuota per definizione? Per le autrici pubblicare un libro del genere è la stessa scelta che si continua a vedere nel mondo dell’accademia: dove pensiero critico e innovazione vengono talvolta soppiantate da interessi ideologici e dinamiche economiche. Che si torni a studiare logica e teologia! Altro che gender studies…
A questo punto, sembra quasi più naturale riconoscere la stessa matrice colonialista che le autrici attribuiscono al maschilismo siciliano nella natura stessa del libro e nelle loro argomentazioni ideologiche, piuttosto che a sti poveri carusi.
Mi spiego.
Mentre fuori c’è la morte: nulla è certo, il passato è da riscrivere, tutto è un costrutto sociale e si professa l'inclusività acritica a tutti i costi; la Sicilia vive di esclusività. Entra solo chi porta il peso della storia nel sangue:
il suo radicamento nella ritualità è impenetrabile a questo "progresso". Lei è tragica, come le tragedie greche che rimbombano ancora nei nostri teatri antichi di millenni, che hanno ispirato il dionisiaco e l'apollineo. Questa Sicilia non ammette che si possa dissolvere la verità in frammenti relativi e fluidi, artifici retorici per creare ambiguità sulla realtà.
La Sicilia è l'anti-postmoderno per eccellenza!
E insomma, per ora il vero imbarazzo coloniale è delle stesse persone che lo travestono da emancipazione… “Viviam próprii rint’na società”.
Le autrici del libro? Rigettano l’antico per inseguire un progresso (post)moderno, ma il perenne manco lo sfiorano. Ed è qui che si perde ogni possibilità di recupero reale: non c’è interesse per le categorie fondamentali, quelle della verità e della natura umana, pilastri su cui si fonda la sicilitudine.
E senza queste, restano solo fumo e specchi. Il loro sforzo di inserire la Sicilia in una griglia di valori assoluti, ma fumosi e posticci, di ridurre la sua cultura a una semplice questione di "oppressione", è esso stesso un atto di colonizzazione.
E forse nemmeno se ne accorgono: dopotutto non sei immune alla propaganda nemmeno quando la fai, e nessuno è capace di non farla. A noi di Blast questo non può che strappare un sorriso.
Chissà magari le autrici, entrambe siciliane, sono rimaste talmente traumatizzate dalla disputa Catania/Palermo - Arancino/Arancina
, che non hanno potuto fare a meno che scrivere della necessità dell'arancinu, così allora noi non possiamo che accodarci all’imbarazzo dell’intramontabilu:
Nel cercare il perenne, l'Uomo perenne attorno al quale ruota la sicilianità, non si può fare a meno di parlare dell'equilibrio e la sintesi tra il maschile e il femminile; di ezer biblico, non una querelle di genere: è il "soccorso" dell'uomo - il termine stesso usato per riferirsi a Dio direttamente. È un passaggio difficile per lə nostr* amə (che stanno ancora litigando su chi è più oppresso tra un macchinista necrofilo e uno zoppo con tre gambe e chi portare quindi al proprio fanta-svantaggiato), ma tu che miri all'uomo perenne non puoi farne a meno.
Siamo oltre!
La femminilità siciliana non ha bisogno di nuove parole, di nuovi manifesti, perché è sempre stata il cuore pulsante dell'isola. È incarnata da quella figura che per secoli ha governato i destini familiari con mano ferma e sguardo lungo, non è una vittima, ma una regina, plasma il mondo come un flusso sotterraneo. È colei che sorregge la casa mentre il patriarca si immola alla sua stessa idea di forza. Non c'è bisogno di liberarle, perché il loro potere sta nella capacità di resistere e mantenere intatta l'identità della terra, di trasformare ogni cambiamento in un’opportunità per rafforzare ciò che è sacro. La femminilità è la matrona.
Vogliamo parlare di fatti? Sbo, momento Barbero.
Franca e Giulia Florio, una letteralmente la Oprah Winfrey siciliana e l’altra una Finance bro sis ante litteram, un secolo e mezzo fa, nella stessa famiglia.
La prima sfruttava i suoi legami con l’aristocrazia europea per consolidare la posizione dei Florio e della Sicilia a livello internazionale, spillando del tea con il Kaiser Guglielmo II
e dando retta a Gabriele d'Annunzio
durante l’ennesima delle sue inventate crisi di identità per fare il sottone con la dama di turno.
Giulia amministrava il patrimonio agricolo della famiglia, e tra un premio per l’imprenditoria
e una indagine dell’antitrust
si dedicava ad attività di beneficenza, dopo la morte dei suoi figli durante la WW1, divenne una figura di riferimento per il sostegno logistico dei soldati siciliani. Basatu.
Adirati, mi direte: “ma queste sono tutte donne nobili! e le povere donne del popolo? Che fine ha fatto il proletariato??” Intanto, ziopera… devo spiegare proprio tutto…
Quante volte è capitato al nostro PNN di storcere il naso davanti a un siciliano che, in quanto tale, afferma di essere più nobile del suo non-luogo? Mi dispiace per il nostro inquilino di palafitta-a-zingonia, ma c’è una buona ragione oltre lo stereotipo.
Storicamente, il sangue blu siciliano non è mai stato chiuso in castelli o circoli esclusivi: la nobiltà partecipava attivamente alla vita sociale e politica e diventava parte integrante della comunità locale.
Il termine "nobiltà
" per il siciliano è sinonimo di dignità e radicamento culturale
, un retaggio delle antiche civiltà che hanno attraversato la bella isola. Greci, Romani, Arabi, Normanni e Spagnoli hanno tutti lasciato un’impronta nobiliare che è stata gradualmente assorbita e diffusa tra la popolazione. Le usanze, i valori e i gesti che un tempo erano esclusivi dei nobili si sono infiltrati nel tessuto quotidiano, dando a ogni siciliano un senso di appartenenza e un portamento che ha portato ad una democratizzazione della nobiltà. In Sicilia è una questione di stile di vita, attraversa il modo in cui si apparecchia la tavola, passa per il cibo (fatevi qualche ricerca sulle origini del cannolo, della cassata o dell'arancinu) fino alla piazza e arriva alle feste religiose. La ricerca del bello e del vero, in Sicilia non parte dall’alto, ma parte dal pop(olare). È un fenomeno culturale che si estroflette dalla nobiltà tradizionale al popolo siciliano.
La regina è matrona, lunga vita alla matrona!
La Sicilia, in realtà, è un'esplosione di matriarcato celato che gestisce il sacro e l’ordito della memoria. In fondo, chi, se non le donne, ha tenuto saldo il tempo?
Inconsapevoli di vivere nel mito, siamo ricchi delle rughe delle nostre nonne, qui non c’è futuro da inseguire: il futuro si consuma nei riti. L’eternità non si misura in anni, è immobile perché è compimento.
Solo chi non vede crede che nulla succeda, ma il vero accadimento è proprio il ‘non succedere nulla’. Le lucertole attraversano ancora la strada, i balconi esplodono di gerani.
Il fuoco incandescente del vulcano
Allontanò il potere delle Giubbe Rosse
E come sembra tutto disumano
E certi capi allora e oggi e certe masse
Quanti fantasmi ci attraversano la strada
Ritornare a sud
Per seguire il mio destino
La prossima tappa
Del mio cammino in me
Per trovare la mia stella
E i cieli e i mari
Prima dov'ero