Siamo stanchi, stanchi di questa Italia-souvenir, questo Belpaese da cartoline che puzza più di carbonara che di futuro.
Guardiamoci intorno: non siamo il cuore d’Europa, siamo il suo intestino pigro. Un budello digerente imbottito di pasta e vino
, che si nutre di retorica e si abbiocca su un divano di nostalgia, ruttando versi di Leopardi e sorsi di Chianti.
Chi siamo? Un museo vivente. No, peggio: siamo un parco a tema del decadentismo nostrano. ItalyLand, strade adibite a set di Fellini. Le piazze congelate in scene da cinema anni ’50 sospese nel tempo. Fermi. Immobili. Perfetti come soprammobili. Una nazione che non parte, non atterra e non decolla. Galleggia in un limbo di "come eravamo" e "vita bella"
. Siamo la nazione che ha paura di graffiare la sua vernice vintage, di sporcare la sua patina d’epoca. Non è romanticismo, è paralisi; non è bellezza, è imbalsamazione.
Il nemico non è solo il turismo di massa:
siamo noi stessi che vogliamo perpetuare un mito. Quando ci vantiamo di essere “il paese più bello del mondo”, stiamo soltanto sigillando la nostra condizione di prodotto. Un prodotto ben impacchettato, certo, ma vuoto. L’Italia, nella sua ossessione di compiacere lo sguardo altrui, ha dimenticato di guardarsi dentro. E così, restiamo una scatola vuota, ma almeno con un bel fiocco.
Chi può essere una potenza viva, quando il mondo ti vede come un museo vivente?
Questo ci fa ricordare una storia.
Venezia, 1910: F.T. Marinetti e i futuristi invadono la Serenissima. Guardano Venezia e la vedono per ciò che è, una cloaca stagnante, di antiquari, mercanti d’arte, ciceroni.
Una città morta, fossilizzata per il piacere di borghesi nostalgici, che affonda ma si rialza per posare in una foto. L’essenza massima del passatismo.
Marinetti non è lì per il prosecco. Sale sulla Torre dell’Orologio e sgancia le bombe: ottocentomila manifesti dal cielo, una mitraglia di carta che soffoca la folla. Il messaggio? Basta con questa Venezia in posa mortuaria da donna d’arte! Rinasci come porto militare! Via le gondole, vogliamo corazzate! Serve acciaio, non nostalgia, dinamite, non pastasciutta!
La folla si ribella, ovviamente. Passatisti militanti contro futuristi: la scena diventa una zuffa epica, un rave di cazzotti dove i futuristi, tra i quali c’erano anche atleti, le suonano di santa ragione a chi rifiuta la loro vulgata.
“Eppure, voi foste un tempo invincibili guerrieri e artisti geniali, navigatori audaci, ingegnosi industriali e commercianti instancabili... E siete divenuti camerieri d’albergo, ciceroni, lenoni, antiquari, frodatori, fabbricanti di vecchi quadri, pittori plagiari e copisti. Avete dunque dimenticato di essere anzitutto degl’Italiani, e che questa parola, nella lingua della storia, vuol dire: costruttori dell’avvenire?”
Marinetti aveva capito tutto. Distruggere Venezia non significava abbattere i suoi edifici, ma liberarla dalla sua immagine.
E noi, oggi, dovremmo fare lo stesso con l’intera Italia.
Perché il problema, naturalmente, non è solo Venezia:
Bologna è ostaggio del fuorisede standard che, trasudando un umanesimo rancido, strangola la città con il suo chiacchiericcio accademico: l’ideologia novecentesca è sostituita a colpi di intersezionalità americana per sembrare qualcosa di diverso, ma è la solita solfa.
Milano è Milano.
Napoli, invece di abbracciare la sua vera essenza – la VIOLENZA, la carne viva della strada –
si è piegata al ricatto culturale della stampa buonista. Oggi serve pastasciutte precotte ai turisti con i calzini nei sandali, spolvera folklore a forma di cornetti rossi e ostenta un maradonismo patetico. Napoletani, Maradona è morto, lasciatelo riposare e smettetela di violentargli la salma per due spicci! E no, non siete sudamericani. I vicoli non sono barrios, sono solo cliché che puzzano di nostalgia fritta.
Davanti a noi abbiamo due strade: essere il ventre molle d’Europa o diventare il suo cuore d’acciaio. Nessuna terza opzione, non è chiaro? Chi oggi ha più di vent’anni ha visto almeno una di queste cose: confini che si dissolvono come sabbia, nazioni che collassano, regimi che si ribaltano come un mazzo di carte truccate. È il caos. Tutto brucia. Il mondo è un disastro, tutto questo non sta avvenendo dall’altra parte del pianeta, ma anche sul nostro stesso mare.
E Noi? Noi che facciamo?
Osserviamo le fiamme riflettersi nei calici di Traminer aromatico. Siamo lo spettatore più mediocre di un programma che chiede disperatamente protagonisti. Dobbiamo fermare questa apnea autoinflitta. Non possiamo permetterci il lusso della fragilità.
Non serve che cadano le bombe per far collassare l’Italia, basta il suo stesso peso morto. Il castello di carte italiano è già pronto a crollare. Si chiama post-globalizzazione, è il collasso dolce e letale del mondo che abbiamo conosciuto fino ad oggi: la demolizione controllata del villaggio globale. Quella fluidità di merci e persone che fino a ieri ha dato forma al nostro modello economico si sta trasformando in una catena arrugginita. E quando si spezza, l’intera macchina si ferma.
Non sarà l’uranio impoverito a disfare questo paese, ma l’inedia. Moriremo di fame in un ristorante, una mangiatoia in cui nessuno vuole più venire a pranzare. Non con un’esplosione spettacolare, ma cadendo nel silenzio, inghiottiti dal nulla, mentre le luci si spengono una ad una.
Per troppo tempo ci siamo crogiolati nella fiaba della “dolce vita”, un’illusione che nasconde un veleno lento, l’inerzia. La dolce vita è diventata una trappola: un elogio della stasi che soffoca ogni slancio vitale, ogni possibilità di grandezza.
Il turismificio è il nostro polmone d’acciaio: ci tiene in vita solo per soffocarci meglio
. Questa economia da mummie non ci salva, ci logora. Italia, basta essere il parco giochi del mondo. Basta gondole, colossei e mandolini. È l’ora di strapparci di dosso le maschere da Pulcinella e diventare i protagonisti del futuro: industrie forti, tecnologie spietate, visione laser. Non serve un’altra mostra per celebrare Marinetti; serve un bulldozer per distruggerle tutte.
È stato proprio lui, il buon Filippo Tommaso, a insegnarcelo: la distruzione è il primo passo per la creazione; demolire non è un atto di odio, ma di amore feroce per ciò che può essere. Non è tempo di commemorare, ma di agire. Vogliamo un’Italia d’acciaio, dinamica, velocissima. Un paese che corre sulle rotaie di un’accelerazione inarrestabile. Marinetti non va ricordato, va incarnato.
Con questo spirito, per gli ottant’anni dalla sua morte e dalla sua nascita, non apriamogli i musei, chiudiamoli tutti. Spegniamo le luci della cultura e accendiamo il fuoco della creazione. L’Italia non ha bisogno di storia, ha bisogno di un detonatore. E Marinetti ci chiede esattamente questo, di metterci al lavoro e di non ricordarlo, anzi.
“I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili. — Noi lo desideriamo!”
La bellezza non è una reliquia da osservare, è una sfida da raccogliere. Va forgiata nel fuoco, spinta al limite, reinventata continuamente. L’Italia non può continuare ad essere una cartolina. Strappiamo allora il nostro destino dalle mani di chi ci usa come un eterno palcoscenico. Non siamo una quinta teatrale per spettacoli mediocri. Siamo l’incudine, il martello e la scintilla che crea. La dolce vita è finita! È ora di vivere forte, veloce, inesorabili verso il futuro.
Non c’è più tempo. Basta chiacchiere, basta compromessi. Dobbiamo rimboccarci le maniche, ma non per fare gli operosi: per sfoderare i pugni. Lo spirito dei futuristi non è un ricordo polveroso, è una scossa elettrica che ci urla in testa: devi cambiare.
E cambiare non è gentile, è violento, è inevitabile. Scendiamo in strada e spacchiamo tutto.
Basta con i connazionali-caricatura, quei giullari che interpretano l’italiano pizza-pasta-mandolino su TikTok e che finiscono per sposarsi americane alla ricerca del marito macchietta. Basta col piagnone che scopre il patriottismo solo davanti a due fette di ananas sulla pizza, e si indigna perché Reddit gli ha detto di farlo. Basta con gli esegeti delle sciocchezze che ci spiegano come vivere nel paese in cui siamo nati, giurando che non si può bere un cappuccino dopo le undici.
A voi che alimentate questa farsa: stiamo arrivando. Vi staneremo nelle piazze, nei bar, ovunque vi nascondiate. Vi faremo neri, ma non per odio, per svegliarvi, per strapparvi dalla paralisi. Questo paese non ha più spazio per chi si abbandona al declino, per chi si rifugia nella parodia.
Italia, devi cambiare. E lo farai a suon di mazzate, proprio come a Venezia.