A 20 anni dalla sua scomparsa, cosa rimane del narratore lisergico del nostro tempo?
Il 20 febbraio 2005, nella sua casa nel Colorado, Hunter S. Thompson sparava il suo ultimo colpo, rivolto a sé stesso. Da anni ormai soffriva per non poter essere più lo stesso.
Il suo ultimo biglietto recita:
«Niente più partite. Niente più bombe. Niente più camminate. Niente più divertimento. Niente più nuoto. 67. Cioè 17 anni oltre i 50. 17 in più di quanto avessi bisogno o desiderato. Noioso. Sono sempre più stronzo. Niente più divertimento, per nessuno. 67. Stai diventando avido. Viviti la tua vecchiaia. Rilassati. Non farà male.»
Questo articolo non vuole però essere un mero rimembrare la sua fine. Anzi, in una vita come quella di Thompson, narratore lisergico della fine del nostro tempo, la fine non è altro che un capitoletto di coda.
E cosa rimane oggi dell’eredità di un colosso simile?
Solo un grande vuoto, riempito dal frastuono della modernità.
Lui, col suo tipico tono caustico, avrebbe ghignato al nostro presente: il collasso tra realtà e spettacolo, dove tutto è “vero” perché tutto è “falso”, dove ogni leader è un clown e ogni IA un prestigiatore che fa scomparire il lavoro sotto un cappello.
Thompson ha intravisto questo caos prima che esplodesse su larga scala. Non è mai stato un accelerazionista consapevole, ma un precursore che senza saperlo ci aveva già tratteggiato un ritratto del mondo moderno.
La follia era il suo superpotere
Non per evadere, ma per andare a fondo. Sapeva che il mondo è un mosaico di bugie ben congegnate, e la verità, quella vera, è il caos che resta quando distruggi le illusioni.
Non si tratta di nostalgia, ma di capire che abbiamo perso la sua lezione: la libertà non è una parola, è un atto di ribellione.
Il Gonzo Journalism come antidoto alla falsità della narrazione moderna
Hunter S. Thompson non ha inventato solo un metodo di scrittura: ha creato un nuovo modo di fare giornalismo, uno stile che, piaccia o meno, ha anticipato la direzione che l’informazione avrebbe preso nel XXI secolo.
Il Gonzo Journalism non era un capriccio di un uomo eccentrico o la ribellione di uno scrittore in eccesso, ma una risposta necessaria a un giornalismo che già allora stava diventando sempre più distante, costruito e privo di autenticità.
Nel gonzo, il giornalista non è un semplice testimone. Non si nasconde dietro il velo dell’oggettività, perché sa che quella neutralità è una finzione utile a chi detiene il potere. Il giornalismo non è mai stato davvero imparziale, e Thompson lo aveva capito ben prima che il resto del mondo realizzasse quanto le notizie fossero, in realtà, una narrazione modellata da interessi e ideologie.
Da qui nasce la sua scelta di farsi tutt’uno con ciò che racconta: immergendosi in situazioni estreme, trasformando sé stesso in protagonista del reportage e forzando i confini tra cronaca e autobiografia.
Il giornalista che diventa la storia
Un esempio illuminante fu la sua esperienza con gli Hell’s Angels, vivendo in mezzo ai motociclisti californiani per restituire un ritratto dall’interno di un’America marginale e brutale.
Tra le opere più rappresentative del suo stile c’è Paura e delirio a Las Vegas, nato inizialmente come reportage sulle pagine di Rolling Stone. Qui, il viaggio nel deserto del Nevada si trasforma in una satira feroce del “Sogno Americano”: droghe, eccessi e allucinazioni rivelano un Paese intriso di contraddizioni, che nessun resoconto “oggettivo” e ripulito avrebbe potuto esporre con la stessa forza.
A questa stessa furia demistificante appartiene anche He Was a Crook, lo spietato necrologio di Nixon, meno conosciuto ma forse culmine della sua produzione, dove Thompson traccia un ritratto impietoso dell’ex Presidente, descrivendolo come l’incarnazione di un sistema corrotto e rifiutando ogni indulgenza post-mortem.
È un manifesto cristallino del gonzo journalism: usare la soggettività come un’arma affilata per mettere a nudo ciò che il potere vorrebbe tenere nascosto.
In Kingdom of Fear, invece, Thompson denuncia l’America prigioniera della paranoia e disposta a sacrificare la propria libertà per un’illusoria sicurezza. Scritto in un’epoca di sorveglianza crescente, dove la società americana sembrava barattare ogni libertà in cambio di un’apparente sicurezza, il libro assume i toni di un testamento politico e spirituale, avvertendo il lettore di pericoli che, oggi, appaiono più attuali che mai.
Il giornalismo gonzo ha così precorso l’era dell’informazione immersiva, quella in cui oggi ci muoviamo tra reportage “in prima persona”, tra giornalisti che raccontano da dentro la protesta invece che dal balcone della redazione, tra chi non si limita a riportare fatti ma li filtra attraverso il proprio vissuto, perché ormai anche il lettore sa che i fatti non esistono senza interpretazione.
La fine dell’illusione della neutralità
Ecco perché Thompson non era un semplice outsider, ma un anticipatore del giornalismo moderno: non ci si limita più a una cronaca neutra e distaccata, si scende nel fango. Non esiste più un’informazione senza opinione, senza giudizio, senza posizione. Perché stare nel mezzo non è equilibrio, ma un tacito consenso verso ciò che accade.
E oggi, chi non prende posizione si autocondanna all’irrilevanza.
In questa “società dell’intrattenimento”, un giornalismo di maniera, tutto moderazione e presunta oggettività, non è in grado di smontare le strategie del potere.
Serve un giornalismo che sappia raccontare il contesto, le forze in gioco, le ipocrisie. Thompson aveva capito tutto questo prima di tutti: aveva capito che non basta informare, bisogna raccontare la verità dietro i fatti.
Come avrebbe giudicato il mondo moderno?
Il mondo che ci circonda oggi è una miscela di ipocrisia e brutalità, una versione evoluta delle stesse dinamiche che Thompson raccontava cinquant’anni fa.
Da un lato, la narrazione collettiva si è fatta più raffinata: maschere di virtuosismo, moralità in vetrina, politically correct usato come scudo contro le critiche. Dall’altro, però, il potere è più spudorato che mai nella sua arroganza.
Thompson ha raccontato un’America che si proponeva come faro di democrazia mentre esportava guerre e colpi di Stato.
Oggi, quella stessa America non finge nemmeno più: i suoi nemici sono costruiti in diretta televisiva, le sue guerre sono normalizzate con lo storytelling, i suoi politici mentono in modo così spudorato da rendere il concetto stesso di menzogna quasi irrilevante. Ed è forse persino peggio: perché ormai non c’è più nemmeno bisogno di giustificazioni, il sistema si regge su un pragmatismo disarmante.
Non avrebbe avuto illusioni su tutto ciò: avrebbe visto il mondo moderno come l’inevitabile evoluzione di quello che già conosceva. Forse lo avrebbe trovato ancora più onesto nella sua brutalità.
In questo scenario, Thompson non sarebbe stato uno sconfitto. Sarebbe rimasto un testimone feroce, un cecchino della parola pronto a far crollare il castello di carte con una frase.
Forse avrebbe scritto il suo pezzo migliore, o forse avrebbe semplicemente sogghignato, lasciando che il mondo annegasse nelle sue stesse menzogne.
Epilogo?
Hunter S. Thompson si è sparato vent’anni fa, ma non se ne è mai andato davvero. È ancora qui, nel giornalismo, nella politica, nella cultura pop. Il suo metodo, la sua paranoia lucida, la sua furia sono parte del nostro modo di raccontare il mondo. Non è solo un’icona: è una radice profonda, un punto di partenza per chiunque scriva senza volersi nascondere dietro la facciata dell’oggettività.
Il gonzo journalism ha distrutto la favola del reporter invisibile. Thompson sapeva che la verità non è una lista di fatti in ordine cronologico, ma una lotta tra narrazioni. Il giornalista non è un osservatore, è un soldato sul campo, un infiltrato nella storia.
Thompson non era né ottimista né pessimista: era altrove.Sapeva che il collasso non è un nemico, ma l’unica strada, e che non si può più tornare indietro.
E qui diventa chiaro perché Thompson è anche Blast. Non solo per lo stile diretto, ma per il rifiuto di accettare che il mondo vada raccontato con distacco. Thompson si spingeva oltre, prendeva posizione, entrava nelle storie fino a diventarne parte. È questo che lo rende nostro.
Non possiamo seppellirlo perché viviamo ancora dentro la sua visione. La politica è intrattenimento, il giornalismo una guerra di opinioni, l’informazione si mescola allo spettacolo.
Se Blast esiste, è anche perché lui ha dimostrato che si poteva rompere il giocattolo del giornalismo tradizionale e raccontare il caos senza ipocrisie. Non è solo un’influenza, è una radice.
La sua lezione, in fondo, è tutta qui: non arretrare. Il mondo vuole farti ingoiare la sua dose quotidiana di menzogna; tu, spara sulle ipocrisie, lascia segni profondi, rivendica la libertà che hai. Gonzo è sapere che la verità è un campo di battaglia e che la neutralità non ti salva: ti rende complice.
E alla fine, come Thompson insegnava, la libertà è un mezzo. Se non lo usi, muore.
“Cammina a testa alta, dai calci in culo, impara l’arabo, ama la musica, rimani aggiornato sulle notizie, mettiti la crema solare, massimizza il tuo piano pensionistico, pulisci il frigo, non chiedere soldi in prestito dagli amici, togliti i calzini per fare sesso, non guardare troppa TV, apprezza il cibo piccante, sii gentile con gli animali e gli anziani, metti le posate in lavastoviglie col manico verso il basso, metti un solo spazio dopo un punto, non fidarti mai di una scoreggia, piegala come Beckham e non dimenticare mai che provieni da una lunga stirpe di cercatori di verità, amanti e guerrieri.”
Nell’Agosto di quest’anno mi capitò di leggere che una blogger californiana, di origine indiana, accusava gli occidentali di abusare della parola curry utilizzandola come equivalente semantico universale per qualsiasi salsa della cucina indiana.