In un mondo di puttane, le sante non possono essere amate.
Sabato. Poca roba, intendiamoci, qualche post Facebook qui e là, qualche casa editrice vagamente coraggiosa – Adelphi, perché ce l’ha in catalogo, e forse poche altre – le ha dedicato non più di una righettina o due di commento, tra l’altro sempre al solito verso, l’incipit di Diario Bizantino:
«Due mondi – e io vengo dall’altro».
Un verso potentissimo che si ripete più volte nel corso della prima sezione del poemetto (uscito pochi giorni dopo la sua morte prematura), a rafforzare quel senso di estraneità dal mondo umano, materiale, superficiale: insomma, la separazione del fiore dal fango, del Cielo dalla terra.
Cristina Campo, da Passo d'addio
(1956)
È rimasta laggiù, calda, la vita, l’aria colore dei miei occhi, il tempo che bruciavano in fondo ad ogni vento mani vive, cercandomi... Rimasta è la carezza che non trovo più se non tra due sonni, l’infinita mia sapienza in frantumi. E tu, parola che tramutavi il sangue in lacrime. Nemmeno porto un viso con me, già trapassato in altro viso come spera nel vino e consumato negli accesi silenzi... Torno sola tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo roseo sugli orci colmi d’acqua e luna del lungo inverno. Torno a te che geli nella mia lieve tunica di fuoco.
Sì, io sono tra coloro che di Cristina Campo ha letto il nome e qualche titolo, financo una poesia, uno stralcio di lettera, un assaggio di prosa.
Non di più. E poco, del resto, ha scritto la Campo stessa.
È vero: l’inutile è meraviglioso – ma il superfluo è corrosivo, vizioso, corruttivo.
Comprando poco tempo fa La tigre assenza
(Adelphi, 1991), la prima cosa che balza all’occhio è che le prime quaranta pagine su oltre trecento, sono poesie originali di Cristina Campo – la sua esile raccolta del 1956, Passo d’addio
, insieme a una serie di Poesie Sparse, tra cui proprio Diario Bizantino
e La tigre assenza
–, tutto il resto sono traduzioni di altri poeti, da Emily Dickinson a T.S. Eliot. Di Eliot, ad esempio, traduce il possente attacco di The Waste Land:
«Aprile è il mese più crudele (…)»
interrotto dopo pochi versi, un taglio studiato per le proprie esigenze poetiche. La traduzione (poetica, non filologica, ça va san dire) è fulcro dell’atto poetico. Del resto, nella biblioteca di Babele c’è già tutto (Borges docet), dunque, serve davvero creare ciò che è superfluo? Ciò che non dice nulla in più?
Cristina Campo, da Poesie Sparse
La Tigre Assenza
Pro patre et matre Ahi che la Tigre, la Tigre Assenza, o amati, ha tutto divorato di questo volto rivolto a voi! La bocca sola pura prega ancora voi: di pregare ancora perché la Tigre, la Tigre Assenza, o amati, non divori la bocca e la preghiera…
A non essere superfluo affatto è leggere la Cristina Campo, vedere in lei il riflesso di una realtà che si trasfigura nel trascendente, nella luminosa cadenza liturgica, nella devozione assoluta alla bellezza.
Non è un caso che Cristina Campo non venga studiata nelle aule scolastiche o universitarie, non è un caso che solo i veri corsari dedichino alla sua opera spettacoli, conferenze, letture pubbliche. Non è un caso che tutti, sabato, siano corsi a pubblicare un verso della Campo, per dire «PRESENTE!», per partecipare all’appello degli ultimi arrivati – che non saranno i primi –, per unirsi al pigliatutto collettivo, all’appropriazione culturale indegna che periodicamente si riversa sul povero defunto di turno.
Non è un caso che, questa volta, tocchi a Cristina Campo.
Anzi, per lei mi sarei aspettato ben più profondo impegno, ben più netta Reinassance dell’ultimo minuto.
Che mondo demmerda (!) un mondo in cui Gio Evan è più poeta di Cristina Campo.
Che mondo demmerda (!) il mondo che corre invece di lasciarsi affascinare, stupire, invece di amare.
E allora
«Due mondi – e io vengo dall’altro»
Io vengo da un mondo Altro, un Altrove luminosissimo, dove la luce è talmente forte, talmente dirompente, che vedo oltre i muri, oltre le persone.
Io vengo dal Blast. Sono figlio della Matrice.
Io non mangio con la poesia, io mi nutro esclusivamente di poesia, fino a star male, fino a non vedere nient’altro che luce.
Voglio la vita di Cristina Campo. Un volto divino, stupendo, di una bellezza tra la sublimazione angelica dantesca e il deperimento baudelairiano.
Voglio la malattia, voglio conservare la bellezza eterna morendo qui, adesso, sul treno, mentre scrivo. Mi troveranno estasiato dalla poesia, folgorato.
Voglio la vertigine:
«Mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, / inenarrabilmente ignoto al mondo».
Allora l’Altro! Cerchiamo l’Altro! Non limitiamoci al Questo! Preghiamo fino al sangue.
Cristina Campo, Diario Bizantino
I
Due mondi – e io vengo dall’altro.
Dietro e dentro le strade inzuppate dietro e dentro nebbia e lacerazione oltre caos e ragione porte minuscole e dure tende di cuoio, mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, inenarrabilmente ignoto al mondo, dal soffio divino un attimo suscitato, dal soffio divino subito cancellato, attende il Lume coperto, il sepolto Sole, il portentoso Fiore.
Due mondi – e io vengo dall’altro.
La soglia, qui, non è tra mondo e mondo né tra anima e corpo, è il taglio vivente ed efficace più affilato della duplice lama che affonda sino alla separazione dell’anima veemente dallo spirito delicato – finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa – e delle giunture dagli ossi e dei tendini dalle midolla: la lama che discerne del cuore le tremende intenzioni le rapinose esitazioni.
Due mondi – e io vengo dall’altro.
O chiave che apri e non chiudi, chiudi e non apri e conduci teneramente il vinto fuor della casa del carcere e fuor dell’ombra della morte e il senzatetto negli atrî luminosi dei mille occhi impassibili di chi ha compiutamente patito e delle mani contro la notte levate nel santo ideogramma della benedizione – disegnati ridisegnati secondo gli otto toni che separano gli otto cieli con l’erotico incenso e il ferale myron, al centro del petto, al centro del Sole, là dove il Nome – myron effuso è il Tuo Nome! – rapisce in vortice immoto alla vita del mondo, zampilla nuovi sensi dal mondo della morte.