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SAN DAMIANO SUPERBARBONE

SAN DAMIANO SUPERBARBONE
Lettura boomer
San Damiano è un prodotto “cicaloniano”?

Sciaguratamente durante intense e sacrosante sessioni di scrolling su Tiktok può capitare che quel dannato algoritmo mi presenti la peggior razza in circolazione che si possa incontrare lì.
Non mi riferisco ai pizzaioli napoletani con il loro impasto contemporaneo, né tantomeno a chi consiglia i cinque bar imperdibili dove fare colazione a Milano.
Mi riferisco, bensì, ai cosiddetti bookinfluencer e ai cine-content creator (questo mostro linguistico me lo ha appena suggerito Blastgpt), e in particolare a quella sottocategoria di quanti si prendono anche sul serio. Seguendo il loro tono, e magari anche il loro look – maglioncino a rombi del nonno ma oversize, occhiale alla Chiara Valerio e, se avessi più capelli, ricciolino alla Edoardo Prati – , nel recensire un prodotto culturale potrei esordire con frasi del tipo:

«a contare non sono tanto le risposte, quanto le domande»

Considerato che a noi la serietà «c’ha rotto er cazzo», esordiamo dicendo che la visione di San Damiano – documentario girato dai registi Gregorio Sassoli ed Alejandro Cifuentes, uscito nelle sale cinematografiche il 10 aprile scorso – impone una (1) fondamentale domanda.: è San Damiano un prodotto “cicaloniano”?

Da un lato è sicuramente cicaloniana l’ambientazione:


Piazza dei Cinquecento, Via Marsala, insomma Roma Termini fa da sfondo alla materia narrata, ovvero la vita di un ragazzo di origine polacche, chiamato appunto Damiano, che vive per strada e le cui giornate sono, per dirla con le parole di Mario Picchi – autore nel 1964 di Il muro torto, romanzo sconosciuto ai più ma ripubblicato recentemente da Narhval edizioni –

«una pianura nella quale posso girovagare a volontà, creando gli itinerari che il capriccio e il piacere mi suggeriscono».

Come ne Il muro torto, anche in San Damiano accade che talvolta protagonista della narrazione diventa la città stessa. Nel romanzo Picchi ci descrive la lontana Roma degli anni ’60, in pieno boom economico eppure decadente e alienante per il suo protagonista, Carlo, rappresentante di inchiostri per penne stilografiche che vive in un pezzo di verde a ridosso del Muro Torto. I registi Sassoli e Cifuentes invece ci restituiscono l’architettura urbana, ma soprattutto mentale, della Roma Termini di oggi, che anche chi ha la disgrazia di vivere in provincia (!) ha potuto conoscere grazie ai video di Cicalone (prima che questo calasse nelle viscere della metro a rincorrere borseggiatori). Un susseguirsi di Kebabbari, bangladini e sale slot costruiscono e abbrutiscono il paesaggio, che si rispecchia nel paradosso topografico secondo cui vie intitolate a grandi uomini vengono vissute e monopolizzate da senzatetto, tossici o malati mentali.

D’altra parte, al netto della comune ambientazione, San Damiano non è affatto un prodotto “cicaloniano”, e questo per due motivi.

Anzitutto, i registi compiono un’operazione estranea allo stile dello youtuber: essi stessi si “degradano” al livello di Damiano con la tecnica pasoliniana della soggettiva libera indiretta, spogliandosi cioè dei propri panni sociali e culturali e provando a vestire quelli del protagonista. Vivono i suoi luoghi, con lui e come lui, lo seguono nelle sue peregrinazioni cittadine ed in tutti i suoi infrangimenti di legge, donando allo spettatore la giusta carica realistica propria di un documentario. Il nostro Santo sa quello che Cicalone, forse, non sa: che i margini del mondo e delle nostre graziose città non sono solo interessanti per noialtri che tanto ridiamo o rabbrividiamo di fronte alle scene di violenza e di follia che le riempiono, ma sono una realtà altra da conoscere e capire per guardarsi meglio le spalle o per la pura curiosità di empatizzare con il diverso. Vi vediamo mentre guardate i video di Cicalone e pensate che sono davvero assurde e lontane dai nostri dolci appartamenti queste “storie vere di ogni tipo che nessuna persona si aspetta”, come recita la sua bio di Youtube. Ma siamo così sicuri di non aspettarci ciò che vediamo nei suoi video?

La forza di San Damiano è proprio il senso di familiarità che suscita nello spettatore, perché la prospettiva è invertita: se Simone Cicalone, per quanto ci provi a sentirsi “uno di loro”, li guarda dall’alto, in questo caso i registi spariscono dietro la videocamera e lasciano che sia Damiano a guardarci dall’alto e dal basso, a specchiarsi in noi che ci specchiamo in lui.

Guardare nell’abisso del carnevale bachtiniano per ritrovare la coscienza di noi stessi e dell’umanità: questa è l’esperienza che il film trasmette, finendo per veicolare un messaggio sociale che parla proprio a noi, che a Termini passiamo il minor tempo possibile.

In secondo luogo, il documentario – ed è qui forse la sua riuscita più felice – coniuga alla sopracitata carica realistica un sapiente disegno narrativo: nonostante le immagini abbiano in sé e per sé una fortissima presa sullo spettatore, non si presentano in una slegata e casuale sequenza, ma sono ricucite in modo tale da raccontare la parabola discendente di Damiano. Occupando e abitando una posizione sopraelevata, una delle torri che costeggiano la Tiburtina antica, il protagonista vive prima una sorta di superbarbonismo – qui si lava, si profuma, addirittura si depila, canta e scrive canzoni – per poi fare ritorno al suolo, o, meglio, sottosuolo della stazione.

Il super-barbone ci guarda tutti dall’alto.

Qualcuno ricorderà il video, pubblicato da Welcome to Favelas, dei pompieri che fanno scendere dalla torre delle mura di San Lorenzo il nostro Damiano, al tempo ancora ignoto ad ogni pubblico. Come un deus ex machina in un teatro greco, Damiano scende giù dall’alto della sua fantasiosa sistemazione, lasciando vuoto il suo posto di vedetta: le immagini girate sulla torre, ormai abbandonata, che chiudono il film, hanno un fascino decadente e trasmettono, come d’altronde l’intera pellicola, sensazioni ambigue. La tenerezza, la rabbia, il disgusto e la fascinazione per l’umanità schietta e nuda, la paura, la rabbia e la commozione affollano la testa dello spettatore e vorticano alla massima velocità nella testa di Damiano, che sorprende sempre, in ogni scena, seguendo il copione dei suoi pensieri senza filtro alcuno.

Il Santo si arroga il potere di fare e dire tutto, di prendere a bottigliate la sua fidanzata del momento, di diventare un musicista (“Voglio fare concerti in Italia!”), di scrivere romanzi, di parlare del senso della vita arrivando alla conclusione che “Dio è un diavolo”.

La sacra e primitiva indistinzione della vita e del pensiero solletica la psiche dello spettatore e si ritrova anche nello stile eclettico del film, che accosta scene drammatiche in cui Damiano lamenta la propria solitudine ad un karaoke di gruppo sulle note di Giovane Fuoriclasse. E il protagonista è, per l’appunto, un giovane fuoriclasse: è un tutto potenziale, e la consapevolezza di ciò lo porta ad innalzarsi al di sopra degli altri rassegnati e meno fantasiosi abitanti della stazione Termini.

Il Santo inizia però a dormire in basso, con gli altri barboni “normali”, quando inizia la sua niente affatto romantica relazione con Sofia, altro personaggio molto presente nella pellicola, e – soprattutto nella parte finale del film – quando l’eccessiva tensione emotiva inizia a sgonfiare la sua convinzione di potercela fare. Ma Damiano che si lava, fa pipì, si rade, si veste sulle mura di Termini guarda dall’alto anche noialtri spettatori, come un dio buffo e spocchioso, come un novello Dioniso, per continuare la pretenziosa ma calzante metafora del tragico greco, a ricordarci che lui è meglio di noi, perché Lui Sa. L’umanità portata allo stremo, le parole e i corpi fuori da ogni controllo deragliano – per utilizzare il termine che dà il nome alla pagina Instagram aperta dai due registi per promuovere il film e pubblicare le ore di girato non inserite nel film – e Damiano è un santo e un dio – cioè, a sua detta, anche un diavolo – nella misura in cui rappresenta l’incontrollabile, e quindi il sacro, che è dentro di noi: è proprio questa la sua superiore e divina sapienza.

La sua salvezza è l’ospedale psichiatrico, che apre e chiude il film, proprio come i vincoli sociali sono la salvezza di noi tutti. Chi siamo noi senza il foucauldiano panopticon? Chi saremmo noi nei panni di Damiano? Inoltre, come un grande romanzo ottocentesco, San Damiano è polifonico: non essendoci una narrazione autoriale che trasporta lo spettatore verso un significato, opposti sentimenti e visioni convivono in una scena nella quale i personaggi sono individui autonomi e sfaccettati. Proprio per questo il film fa capire che la realtà ha tante facce e tante voci, che, peraltro, sono reali, portando all’estremo il concetto bachtiniano di polifonia, per cui i personaggi sono liberi dal loro autore.

Avevamo forse bisogno di ricordarci che l’umanità in senso lato non può essere totalmente inglobata nei nostri “palazzi di cristallo”, come direbbe quel ludopatico di Dostoevskij, o che la vita sa essere irrazionale e orrenda e “Dio è un demone”? Siamo in qualche misura migliori, mentre ci masturbiamo nelle nostre camere, rispetto a Damiano che si dà piacere in strada?

Il prodotto cinematografico può apparire in parte poco originale per noialtri che nel tempo libero ci spappoliamo i neuroni guardando video di Welcome to Favelas e le appassionanti vicende dei minorenni carcerati dell’IPM di Napoli: la strada ci piace e questo film va pienamente incontro a questo fetish contemporaneo. Mettendo via il maglioncino a rombi e l’occhiale alla Chiara Valerio, bisogna però in conclusione dire che il film riesce miracolosamente, grazie anche allo stesso Damiano, a scampare dai pericoli della facile e perbenista filantropia e della superficiale e demonizzante denuncia sociale, tanto che mi azzarderei a definirlo una pellicola intelligente: evita con consapevolezza – e quasi con ostinazione – di rincorrere risposte rapide e rassicuranti, tanto apprezzate dal pubblico quanto ingannevoli, sottraendosi alla logica complice di un sistema culturale che non si misura più con la fatica delle domande, ma si limita a somministrare risposte pensate per il buonista di turno.

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