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DISFARE L'ITALIA PER RIFARE GLI ITALIANI

ovvero manifesto per una strategia italiana 

DISFARE L'ITALIA PER RIFARE GLI ITALIANI
Lettura boomer
Per avere una strategia è necessario prima avere un'identità. Noi chi siamo? Qual è la nostra strategia?

Da qualche tempo è un gran parlare in Italia di strategia, interessi nazionali e dottrine, che siano il Piano Mattei o il fantomatico Mediterraneo Allargato (la cui apoteosi si riduce invero nel pronunciarne i nomi altisonanti). Proliferano riviste, convegni, corsi universitari e la geopolitica sembra entrata finalmente nel dibattito pubblico. Questa consapevolezza ancora in fasce però nasce perlopiù in un contesto totalmente alieno alla pratica dei termini che si evocano come autoevidenti. In Italia, almeno dalla fine della Prima Repubblica (e dalla demolizione di una intera classe dirigente), la strategia non ha casa nemmeno a Palazzo Chigi, le dinamiche internazionali ci trascinano ininterrottamente e gli interessi nazionali sfuggono e si celano in pulsioni velleitarie o nel silenzio. 

Detto in altro modo, è indicativo che con la caduta della Prima Repubblica l’Italia abbia smesso progressivamente di agire attivamente nel panorama internazionale, poiché evidenzia il fatto che la classe dirigente può essere solo un tampone temporaneo ad una mancanza perdurante che è figlia di una crisi d'identità. È quello che sottolinea giustamente Jacopo Ascenzo in due articoli su Dissipatio:

non si può pensare ad una strategia se non si ha una identità.

E soprattutto in Italia, divisa com’è da sempre tra campanilismo e universalismo romano/cattolico (nonché quello catto/comunista), il tema non può che essere fondamentale. La questione è trovare un termine intermedio, una mediazione tra impulsi localistici e tensioni universali in cui possa stabilizzarsi un terreno spirituale comune. Punto che solitamente si trova nella Nazione, in una coesione nazionale che è sempre stata da inventare e che ha rappresentato perennemente il cruccio degli architetti del Risorgimento. 

Il problema però, quando si vuole fondare o rifondare il proprio essere sul concetto di Nazione, è che spesso si finisce a disquisire di una fantomatica pedagogia nazionale.

La Nazione è un problema di educazione, e già questo dovrebbe dire molto sulla sua presunta naturalità.

Un'opera di educazione che non sembra possa trovare basi solide di questi tempi che non siano scimmiottamenti del Ventennio (o peggio a corsi intensivi di “educazione civica”), poiché il problema è in verità più ampio. In un altro articolo uscito su Dissipatio, si scriveva come il termine Nazione ad oggi indichi un generico stato naturale e una forma organizzativa dell'umanità. Questo dipende dal fatto che la Nazione come concetto ha perso, almeno in Occidente, la sua forte carica politica esclusiva, negativa ribaltandosi in un universalismo parallelo ai processi di decolonizzazione e di statalizzazione del restante globo. La Nazione non è un termine intermedio ma rimanda sempre, e non può che farlo se si ammette che ogni Stato deve avere una Nazione e viceversa, a principi universali ed astratti come quello di auto-determinazione. Principi che sono imperiali mascherati da universali, se è vero che l’auto-determinazione di un popolo sottostà ad un certo grado di trasparenza democratica la cui verifica e legittimità è sempre esterna allo stesso popolo

Ecco il punto. L’Italia, agisce all’interno di una legittimità politica che non si dà da sé, la basa su un concetto che non può fondare alcunché di concreto.

Non certamente quella mediazione che si crede sia la Nazione. Esemplificative sono le parole dell’ammiraglio de Giorgi, quando gli fu chiesto se esistesse una strategia propriamente italiana nel Mediterraneo:

Non abbiamo una strategia che differisca dalla generica enunciazione di alcuni principi fondamentali quali la nostra appartenenza alla Nato e all’Unione europea. Insieme alla fedeltà agli Stati Uniti e all’atlantismo. Più il multilateralismo inteso come negazione del ruolo individuale degli Stati. Così diventa molto difficile tradurre i principi in obiettivi concreti da perseguire, su terra o per mare”.

Fare strategia significa ricondurre quei principi universali (perlopiù morali) ad obiettivi molto concreti ed è complicato poiché la stessa pratica mette in crisi la propria identità e rende palese lo sfasamento tra la Nazione e gli interessi sempre particolari dello Stato, quasi sempre meschini e opportunisti (come così devono essere nell’arena internazionale). D’altra parte un interesse nazionale particolare che si faccia universale ha in sé una carica distruttiva senza precedenti, come si è visto in due guerre mondiali, poiché, unendo un principio di auto-determinazione particolare al principio di legittimità dello Stato indica già il discrimine e la sua soluzione:

il genocidio. 

Oggigiorno quindi il concetto di Nazione funge più da limite. È un binario entro cui è lecito fare certe cose e dove è impensabile farne altre. Più il limite è oltrepassato, più si prova a fare reale strategia, più ci si  trova esposti di fronte alla propria in-fondatezza e dunque a possibili moti interni rivoluzionari, poiché si svela la sostanziale a-moralità dello Stato che si nasconde sotto la Nazione. Cosa che si nota osservando la condotta apparentemente schizofrenica, dal punto di vista etico, degli Stati. In Italia ad esempio da una parte si condanna l’aggressione russa all’Ucraina mentre da un altra si compra gas azero e algerino o si soprassiede sulla condotta israeliana a Gaza (cosa che in questo caso va nettamente in contrasto con l’obiettivo di proteggere il diritto internazionale in Ucraina). Lo spazio vince sulla morale (universale), giacché essa non riesce a superare neanche quello di un Continente.

Ciò indica che è presente una reminiscenze di interesse nazionale che abdica appena può alla sua dimensione esterna (logicamente se tutto è Nazione non esiste niente di realmente “esterno”), che si limita a riaffermare vaghi principi internazionali o agisce solo tramite lo strumento economico, come nel caso del Piano Mattei.

Una forma che è frutto della tensione mai risolta tra gli interessi della Nazione, mai di parte e sempre e solo universali e morali, e quelli dello Stato, che in quanto macchina a-morale, può nella teoria perseguirli. Invero però, proprio in quanto macchina, su cosa lo Stato può auto-fondarsi oggi, se non sul concetto di Nazione? L’uomo è l’unico orizzonte della sua legittimità, in Occidente così come in tutto il mondo.

La diversità sta nel fatto che in questa nostra parte del mondo abbiamo subito il pieno dispiegamento della potenza negativa della Nazione, e dunque sembra logico che soprattutto in Europa, per fare reale strategia, si debba andare oltre il concetto di Nazione. Fondare la propria identità su un'altra idea politica vuol dire trarre la legittimità su cui si basa l'ordine politico, da un principio diverso che sia quello di autodeterminazione e quindi dal concetto di sovranità popolare in esso implicito, esponendo l'artificialità e infondatezza della propria realtà politica. Compito spropositato rispetto alle armi concettuali di chi scrive, ma è doveroso farne quantomeno un abbozzo, avendo sempre in mente l’Italia.

A questo proposito, seguendo quanto scritto da Ascenzo, ci si troverebbe nel nostro Paese di fronte ad una situazione paradossalmente favorevole: la differenza che da sempre intercorre tra Nord e Sud sulla forma di governo, federalista al Nord e più centralista al Sud. Bisognerebbe per prima cosa sfruttare questa differenza, fino a renderla effettiva.

L’artificio politico si deve svelare, ma come?

Localizzando le elezioni ad esempio, ovvero separarle da un ambito nazionale (in altri termini le elezioni nazionali andrebbero vietate). Ciò è necessario per privare il principio di autodeterminazione dal suo ruolo di fonte della legittimità dello Stato, e quindi sottrarre la sostanza nazionale dagli obiettivi distruttivi delle politiche di potenza. È l’idea stessa di sovranità popolare che si va a intaccare. Questa scissione ha il merito di rendere realmente particolare ciò che si vuole universale, e dunque Politico, ovvero capace di generare ordine concreto.

Inoltre il processo democratico, così localizzato, sarebbe diretto e non rappresentativo, applicando in toto l’insegnamento di Rousseau.

Solo se è localizzata in uno spazio concreto (e storico guardando alla secolare esperienza dei Comuni), la democrazia può essere Repubblica.

Il problema sarebbe dunque, in una situazione siffatta, trovare la fonte della legittimità di una ipotetica potestà politica superiore che coincida nell’Italia nella sua interezza. Essa non potrebbe basarsi sulla Nazione, bensì fondarsi proprio sulla propria artificialità. La potestà politica che qui potremmo riassumere con il nome di “Principe” troverebbe la sua ragione d’essere nella mediazione che instaurerebbe tra la dialettica interna delle molteplici “sovranità” con l’esterno, ovvero con la molteplicità di Stati-nazionali. Di fatto si presenterebbe una sovranità a più livelli: internamente, pur non esistendo chiaramente un unico monopolio della violenza il Principe fungerebbe da equilibratore delle diverse forme politiche in forza della garanzia verso l’esterno delle stesse. il Principe assicura la libertà delle forze interne che non potrebbe sussistere in una realtà statuale classica.

La libertà è tale solo se sa sottomettersi, e riconoscere, qualcosa di più grande. Qualcosa che non ci si possa dare da sé. Il Principe rappresenterebbe questa sorta di principio di determinazione.

Il monopolio della violenza interna non potrebbe quindi darsi se non distruggendo lo stesso ordine, se non distruggendo la fonte della legittimità del monopolio esterno (e quindi si dovrebbe prevedere la possibilità legale di rovesciare il Principe qualora violi questa regola, come dovrebbe essere il Principe ad intervenire qualora una forma politica interna cerchi di fare il contrario, ovvero cerchi di convertire il monopolio della violenza interna in esterna).

L’inscindibilità della democrazia da uno spazio concreto, storico e minimo sarebbe l’idea politica, su cui il Principe fonderebbe la sua potestà. È un’ idea politica inseparabile dal suo spazio, e quindi di difficile “esportazione”. Anzi, l'idea politica stessa è uno spazio preciso entro cui l'ambito della libertà sia reale, così come le conseguenze di questo esercizio. Ovviamente in questo senso l’elezione del Principe non sarebbe propriamente democratica, come non sarebbe sottoposta a mandati, legislature, anche se nascerebbe dall’accordo tra le forme politiche localizzate. Il Principe è l’istanza superiore e il suo monopolio della violenza esterna può essere compreso solo in questo senso, in quanto garante, in quanto frutto di una mediazione razionale ma allo stesso tempo incarnazione di una mediazione personale e spirituale.

L’Italia sarebbe la possibilità di queste realtà un’idea molto concreta.

La stessa Italia incarnerebbe una linea d’esclusione. Solo aprendosi ad una continua scissione, solo separando interno ed esterno può esserci il terreno di una reale strategia, lo specchio della propria particolarità.

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