Ogni 5 gennaio, in Veneto e in qualche altro posto sperduto nel Nord-Est, rivivono gesti antichi e usanze che si perdono nella notte dei tempi. Il Panevin.
Il Panevin, che vuol dire Pane e Vino, anche se partecipandovi ho sempre visto solo vino, specialmente brulé, è un enorme montagna di legno di vite, paglia, ramaglie e, per il passato, copertoni (ben nascosti sotto), che viene bruciata
.
Questa visione è altamente riduttiva, il Panevin è molto di più. Il panevin è un rito. Ma andiamo per ordine.
Il Panevin in origine veniva celebrato al solstizio d’inverno, che secondo il calendario giuliano cade il 25 dicembre, non si chiamava Panevin, ed era legato ai riti agricoli dei romani – e dei popoli preromanici, azzardo io – in cui il fuoco aveva ovviamente un significato catartico.
Come ogni tradizione cristiana che si rispetti, non nasce coi cristiani, e la cosa mi intrippa abbastanza perché il Panevin è dunque un file-rouge con il nostro passato ancestrale e mitico, un semi-conduttore che parte dai Paleoveneti e raggiungere i Veneti della Pontebbana-cyberpunk.
Ad ogni modo, non ci è dato sapere quando, le fonti scritte in fatto di tradizioni scarseggiano e le fonti orali sono eterne per cui il tempo per loro non esiste, il Panevin è stato spostato alla vigilia dell’epifania (la sera del 5 gennaio), probabilmente perché si sovrapponeva col Natale.
A dire il vero nella mia zona, l’alto trevigiano, viene festeggiato generalmente la sera del 5 gennaio, ma in qualche comune viene festeggiato il 13, altre volte in prossimità di Sant’Antonio abate (il 17 gennaio) Insomma,
Fa quel casso che te vol, basta che te lo fae.
Chiarito il quando, sarebbe da trattare il come, ma il pugliese che mi sta leggendo a questo punto starà già pensando di chiudere l’articolo e andare a cazzeggiare su Instagram. Per cui è meglio lasciar perdere il taglio da Piero Angela e parlare di vita vissuta.
Come succede in questi casi, la storia e la memoria si confondono, memoria collettiva ma anche personale, avendo avuto la fortuna di avere dei nonni contadini (Dio benedica i contadini)
Ogni anno della mia infanzia il Panevin arrivava puntuale, era lì, ogni 5 gennaio, e anche prima a dire il vero, visto che la montagna di legno e paglia non piove dal cielo. La preparazione del Panevin occupava circa una settimana, bisognava piantare il palo (più di 10 metri di lunghezza) che lo tiene su, accumulare la legna delle viti potate, delle siepi, la paglia. Alle donne era riservato il compito di preparare la vecia
, la befana da bruciare che andava issata sulla cima del Panevin, con stracci e roba da buttare. Ovviamente le femene preparavano anche la pinza del panevin, dolce tipico che ho sempre trovato sacrificato tra pandori e panettoni da una parte e crostoli e fritoe dall’altra (un vero peccato)
Ovviamente accanto alla Pinza non mancava il succitato brulè, indispensabile per riscaldare i cuori nel rigido inverno veneto (rigido almeno fino a qualche anno fa, oggi si adatta alla mollezza dei tempi)
Fatto interessante e importante da sottolineare, all’epoca ai Panevin non si vedeva Prosecco: ieri vino bianco fermo da pasto, oggi vino moderno e a tratti femmineo, ma sempre e comunque vino altamente inadatto a certe celebrazioni.
Perché insomma, immaginatevi 30-50 persone in mezzo ai campi trevigiani ai primi di gennaio, attorno a una montagna di fuoco alta 10 metri, brindare con un prosecco.
Insostenibile.
Anche perché al Panevin non si fa cincin e non si sciabola, i campi sono la Chiesa, le vecchie – somiglianti alle babushke dell’est Europa con tanto di fazzoletto in testa – sono il coro, il parroco e i chierichetti, tutti insieme; i canti sono quelli di Santa Romana Chiesa, ovviamente in Latino, o almeno, il latino che potevano parlare i contadini recitando le razion
, le preghiere quotidiane.
Naturalmente, c’era spazio per i brindisi, le chiacchiere e per noi bambini che dovevamo smaltire i raudi – mefisto manna avanzati da Capodanno.
Tra fumo, risa, grida dei bambini e canti latini, anche quest’anno il Panevin si consuma, le sue fuische
(faville) si portano dietro il vecchio, ma nella loro ordinata marcia in cielo profetizzano il futuro, e subito un vecchio dirà:
fuische a matina, ciol su el sac e va a farina
Se la direzione delle favile è il nord o l’est, in caso contrario:
fuische a sera poenta pien caliera
Non ho mai verificato la veridicità di queste affermazioni, quasi mai comunque convinte e sempre un po’ paracule.
Oggi i revival comunali dei Panevin hanno un certo seguito, ma sembrano la brutta copia dei panevin dei contadini. La pinza e il brulè ovviamente non sono più offerti, i petardi sarebbero vietati e le vecchie sono state sostituite da delle casse che mandano la playlist spotify dei tormentoni dell’estate prima.
Colpa dei tempi,
colpa degli uomini,
colpa di Zaia.