La sede mistico/misteriosa della sezione milanese di Blast.
E si è riempita di vita, di vitalità, di vivi.

Non quei cialtroni boomer che usano lo spray rosso per andare contro l’Agenda 2030 e appiccicare stickers. Ma persone che ancora sperano e fanno qualcosa nella vita, che vogliono vedere com’è il mondo e scoprire, oltre l’algoritmo e i muri di codice, quale alchimia può cambiarlo.
La ricetta è semplice: alcol (open Bar di Blast), e arte condizionata (almeno stavolta)

Con Antonio Soldi abbiamo seguito le alcune vie. Qui la sinossi, rubata allo stesso autore. Se non la capite bene, vorrà dire che la prossima volta, al prossimo evento Blast, non dovrete mancare.
Si fa avanti nella foresta con l’accetta in mano, per tagliare rami secchi e alberi brutti e costruire il nostro sentiero.
Semplificando, possiamo pensare che con il suo Orinatoio Marcel Duchamp inizi l’arte contemporanea: l’opera d’arte diventa una idea. L’oggetto, l’orinatoio in questo caso, è il pretesto per assaltare antiche gerarchie di valori costituiti, è il movente di un ragionamento.
Ecco perché molta arte da questo momento in poi è brutta o, meglio, è dispensata da essere bella.
Ecco perché molto spesso non ha senso, quando parliamo di arte contemporanea, preoccuparci che un’opera sia bella o brutta.
Duchamp, oltre a essere un geniale apripista, può essere indicato anche come l’iniziatore di quello che possiamo vedere come una forma di cattivo gusto nell’arte, usando una formula un poco generica. Già con l’ Orinatoio è avviata una tendenza che potremmo definire escrementizia, che porterà a esiti formidabili.
Questo percorso escrementizio trova la propria consacrazione concettuale e quintessenziata nella Merda d’artista di Piero Manzoni.
L’artista può tutto, persino riempire di escrementi una scatoletta e stabilire che si tratti di arte. Proseguiamo su questa strada con la Cloaca Maxima realizzata da Wim Delvoye nel 2000: questo marchingegno trasforma il cibo che viene introdotto in un’estremità, in un escremento, simula insomma la digestione.e

Molta arte contemporanea decide di seguire, senza ambiguità ma in modo esibito, le dorate strade del denaro e della ricchezza. Impossibile qua non citare Andy Warhol, che addirittura arriva a prendere una banconota, firmarla, sovrascriverci sopra il nuovo valore economico derivato del tocco taumaturgico dell’artista, e farla diventare arte.
Per offrire un secondo esempio di questo rapporto tra arte e denaro, possiamo pensare alla fotografia che immortala Yves Klein e Dino Buzzati durante il rito di cessione di una Zone de sensibilité picturale immatérielle. (Troppo lungo spiegare qua il procedimento, andata a cercarlo!)

La rotta di una produzione artistica laida ed escrementizia, di cui noi abbiamo indicato Duchamp come l’iniziatore, porta a un nuovo dispiegamento dell’orrore: da semplice provocazione spesso si intravedono i contorni di due grandi temi, quello del rito e quello del sacrificio, due temi che si intersecano, al tema della laidezza di cui prima.
Un esempio fondamentale in questo caso riguarda Marina Abramović, la performer serba, di cui possiamo ricordare le sedute di “spirit cooking”.
Continuando su questa strada vediamo ora Micheal Nedjar, un artista che può essere ascritto dubitativamente alla corrente dell’art brut. Di lui sono famose le bambole, che lui chiama carni di anima
. Sono bambolotti mostruosi fatti di sporcizia e cuciti insieme con tessuti spesso già sporchi e ripescati dall’immondizia.
Nedjar cuce questi pupazzi e poi li immerge in un bacino con acqua sporca, sangue, talvolta anche escrementi.
Poi prende i pupazzi e li sotterra, li tiene sottoterra e poi li dissotterra, dandogli vita. È un’operazione rituale complessa e vorrei sottolineare l’aspetto legato alla ritualità del seppellimento e della esumazione, che è fondamentale: questi pupazzi mostruosi e primitivi sono morti che tornano in vita, rinascono, in un processo magico e rituale.

Vediamo ora, rapidamente, le inquietanti creazioni di Hermann Nitsch, le quali prevedono un copioso uso di sangue di animale. Sono scenari cruenti, sono scenari di sacrifici, luoghi dove riti hanno richiesto un tributo di sangue.

Seguendo questo schema, quello di una produzione artistica che indaga e mette in atto la violenza arriviamo a uno dei momenti fondativi del nuovo mondo, al tragico e sublime attentato dell’11 settembre che, come ha giustamente affermato il compositore Karlheinz Stockhausen, dovrebbe essere considerato la più grande opera d’arte della modernità.
Questa frase ha scandalizzato i benpensanti ma non avrebbe dovuto farlo, Stockhausen ha semplicemente registrato la titanica forza visiva e situazionistica di questo avvenimento che, infatti, si è riprodotto con una forza mediatica indescrivibile.
Del resto, anche le modalità di questo assurdo attentato, le modalità per cui un secondo areo ha colpito a favore di camera, spingono a vedere nell’atto terroristico un intendimento artistico molto marcato, nel senso di un’operazione pensata per una mediatizzazione.
L’attentato non è solo nei 3000 morti, quanto nella forza di quelle immagini apocalittiche che si sono imposte nell’immaginario globale con una forza senza precedenti.
L’immagine dell’attentato alle Torri è il simbolo di un mito di fondazione dell’occidente del secondo millennio.
In questo senso, nella volontà di filmare e riprodurre all’infinito un suggestivo e hollywoodiano sacrificio di massa, una ecatombe metropolitana, troviamo la grammatica di base di molte opere d’arte contemporanee che sono progettate proprio con questo intendimento, quello di una loro moltiplicazione garantita dai mass media. Su questa strada possiamo indagare il fenomeno dei video prodotti da ISIS e sulla loro ricercatezza registica e cinematografica, così come sulla reale violenza che rientra nelle produzioni cinematografiche (Ruggero Deodato docet)
Forse, in questo ambito, la CIA è il più grande artista del secolo.
Sdrammatizziamo ora con la paradossale rielaborazione che Maurizio Cattelan compie del momento dell’11 settembre.
È un’opera in perfetto stile Cattelan, giocata su una ambiguità di fondo e non è così evidente, come invece i giornali hanno voluto prontamente sottolineare, che si tratti di un lavoro che vuole portare a una riflessione sull’orrore dell’attentato.
L’aereo è riprodotto all’interno della torre, con un effetto di stampante 3d.

C’è qualcosa di pop e di plastificato in questo totem che disinnesca l’orrore dell’attentato e interpreta il momento fatale e apocalittico dell’aereo che si schianta come un episodio ormai decaffeinato, assorbito in un meccanismo pop, disinnescato nella logica di un prodotto di largo consumo.
Vediamo ora il noto Rabbit di Jeff Koons, una scultura che è stata venduta per 90 milioni di dollari. Ci sembra significativo che nell’arte contemporanea sul piano astratto si cerchi quasi sempre il brutto, lo sgradevole e l’offensivo ma poi, sul piano concreto della logica della commerciabilità, a fare cifre record sono quasi sempre opere con una loro certa gradevolezza estetica.
Insomma, il brutto è ricercato quando si espone in musei e luoghi pubblici ma poi, alla prova del fuoco, e cioè al momento delle vendite, sono le opere meno respingenti ad ottenere i successi economici più consistenti
La via della luce e del colore
Arriviamo ora a qualche esempio di opere di artisti che scelgono di ricominciare a cercare le ragioni dei loro prodotti internamente alla creazione artistica.
Ecco qua un artista di grande efficacia visiva, Refik Anadol, che ha avuto l’intelligenza di usare il mezzo tecnologico per determinare effetti visivi di assoluto impatto.
Refik Anadol è un designer turco-americano e in queste sperimentazioni di cui vediamo le immagini vengono creati fluidi onirici e caleidoscopici attraverso algoritmi digitali e intelligenza artificiale.
Ora vediamo una fotografia di un dettaglio dell’istallazione di Thomas Hirschoorn presso il padiglione della Svizzera nella 54esima Biennale di Venezia, siamo nel 2011.
Accenno a Hirschoorn perché nel vostro blog qualcuno ha scritto un articolo a riguardo, un pezzo di grande ironia su una romanzesca storia di una sparatoria o qualcosa del genere.
Ecco qua Anish Kapoor, artista spesso criticato dal pubblico con velleità intellettualistiche o di impegno sociale proprio per una sua apparente superficialità.
Kapoor lavora sui colori e sui riflessi, sperimenta sulla rifrazione, sui giochi della luce.
È un artista che torna alle qualità del manufatto, lo spazio della sua ricerca è confinato nelle caratteristiche delle sue opere, oggetti piuttosto divertenti che spingono il visitatore a una incuriosita interazione.
Di Kapoor ricordiamo anche il cosiddetto vantablack, che è il nome commerciale di un materiale composto da nanotubi di carbonio e che è in grado di assorbire il 99,9% delle radiazioni dello spettro visibile.
Parliamo di questo materiale straordinario in riferimento a Kapoor perché l’artista ne ha acquistato i diritti diventando l’unico a poter usare questo colore in campo artistico.
Come naturale questa sua scelta ha determinato non poche critiche, se ci pensiamo bene siamo davanti a un uomo che compra un colore, impedendone l’uso a tutti gli altri, è un gesto molto radicale, per certi versi rivoluzionario.
In risposta a Kapoor, l’artista britannico Stuart Semple ha sviluppato il suo colore, il pinkest pink , predisponendo che esso sia utilizzabile da tutti tranne che da Anish Kapoor.
È una guerra alchemica se ci pensiamo, lo spirito dei colori al servizio di uomini potenti e senza scrupoli. Insomma, dalla merda, al sangue, si torna alla luce, cioè al colore e alla loro forza che deve essere controllata e posseduta da un artista.
E se questa speciale lectio magistralis si è svolta al piano di sopra, il sentiero magico porta al piano di sotto.
Lì il giovane artista Leonardo Fenu ha predisposto i suoi Saxum.
Nella stanza c’è un dialogo serrato fra l’opera e lo spettatore: un pollicino invisibile ha lasciato le sue tracce, chissà quando, per portarti alle pendici di Pantelleria o sulla luna o in uno spazio astrale e ipnotico. Con una tecnica di lavorazione quasi ingegneristica, che imita la filiera degli autoveicoli. I due autori che guidano la sua opera, in cui si ricerca la meraviglia, sono Delueze e Martini.
È riuscito a rispettarli.