Il caos può ancora avere voce?
L’intelligenza artificiale non ci ha messo molto a fare il salto evolutivo da curiosità di nicchia a monolite del mainstream. Da quando è sbarcata nel grande circo digitale, ci ha regalato di tutto: dai paper universitari alle traduzioni istantanee che tuo cugino spaccia per sue. E non solo tuo zio dice che ruberà il lavoro a tutti, ma qualcuno, folgorato sulla via del progresso
, ha deciso di farci arte.
Un pensiero terribile mi ha attraversato il cervello quando, cercando una compilation chill per studiare, mi sono imbattuto in canali che pubblicavano mix di musica interamente generata dalla AI. Non solo faceva cagare (che vi aspettavate??), ma era sterile, innocua, perfetta per farti scivolare addosso il tempo senza lasciare traccia. Non c’era errore, non c’era rischio, non c’era niente.
Solo suono liscio e ottimizzato. Non musica, ma un prodotto. Perché, almeno per adesso, l’AI è questo: prende i gusti che già hai, li copia, e te li serve levigati. Non crea niente di nuovo. Non sfida, non disturba, non si muove fuori dalle righe che gli dai (d’altronde perché dovrebbe, no?).
Non è sempre stato così. La musica che conta davvero non ha mai cercato di essere accettata. È nata come una scarica elettrica contro il sistema, un glitch culturale che sfugge al controllo, pura entropia messa sotto forma di notazione.
Noise
, rap di scantinato
, rock clandestino
: tutti questi generi erano una risposta a un mondo che voleva etichettare, pulire, uniformare. E loro hanno risposto col caos.
Questo non è un necrologio per la musica vera, ma un viaggio tra le sue schegge impazzite. Quelle che non hanno mai cercato il consenso, quelle che non hanno avuto paura di rompersi. Perché senza di loro non saremmo qui, né a discutere né a sentire nulla.
1. NOISE GIAPPONESE (o “come fra, cosa vuol dire che non posso portare un escavatore sul palco?”)
Negli anni ’80, il Giappone era la culla del city pop, quella musica che sembrava la colonna sonora di un sogno perfetto: tramonti rosa, luci al neon colorate e auto sportive. Era il futuro idealizzato di un paese in ascesa (e che ancora non sapeva che la bolla economica sarebbe scoppiata). Ma sotto quella superficie idilliaca c’era il caos di una società che si perdeva nell’iper-modernità, e qualcuno decise di urlarlo.
Il noise giapponese non era una semplice alternativa al pop: era il suo nemico dichiarato. Merzbow, Masonna, Hanatarash, questi artisti non cercavano di venderti un sogno, ma di spiegarti come mai eri stronzo soltanto ad averlo. Immagina: è il 1979
, sei giapponese e quel tuo amico un po’ particolare ti chiama per andare a vedere un concerto di un gruppo con un nome del cazzo che avrà 3 ascoltatori su Spotify
(che nel ‘79 non esisteva, ma avete capito). Vi presentate in questo localino, e invece che beccarti la solita improvvisazione freejazz questi salgono con una ruspa sul palco e procedono a sfondarlo e andarsene senza suonare niente.
Oltre che Chad incredibili, questo non rappresentava solo una ribellione fisica, ma anche concettuale:
nessuna armonia, nessun compromesso, solo il caos.
In un’epoca in cui tutto doveva essere perfetto, il noise era la ribellione più estrema. Era il rifiuto di ogni estetica, di ogni narrazione, di nessuna idea se non quella di annientarle tutte. Non cercava di essere compreso o accettato: era lì per distruggere. Mentre il city pop
ti abbracciava con il comfort di una Tokyo immaginaria, il noise ti trascinava nelle sue viscere, facendoti sentire il peso della città vera: alienante, disumana, in frantumi.
(occhio al volume!)
2. MEMPHIS RAP: IL FANGO ROMPE I DIAMANTI
Mentre il noise devastava il Sol Levante, dall’altra parte del mondo un altro tipo di ribellione prendeva forma. Negli anni ’90, la scena rap americana era dominata dall’ostentazione: East Coast contro West Coast, video patinati, yacht, champagne, oro. Ma guardando a sud, specificamente nel Tennessee, uno degli stati più poveri degli USA, le cose erano un po’ diverse.
DJ Spanish Fly per primo, seguito poi da una quantità incredibile di artisti per un genere così di nicchia, hanno creato il Memphis rap
, una musica sporca, cruda, inquietante. Registravano i loro brani negli scantinati dei palazzoni dove vivevano, usando drum machine
e campionatori super-economici
. I beat erano scuri, ossessivi, e i testi parlavano di argomenti cupi e stranamente intimisti. Non si trattava di sfoggiare la violenza, ma di raccontarla
, descrivendo quello che a loro sembrava l’unico modo possibile per sopravvivere.
Le copertine stesse riprendono questo gusto così bizzarro e fuori dagli schermi, con grafiche inconfondibili. Qui l’ostentazione c’è, ma non è per narcisismo o per puro gusto di farlo, ma per mostrare agli altri che sì, tu ce l’hai fatta, ora hai fatto un sacco di soldi, e sei potuto scappare da quello che racconti (anche se spesso non era vero).
Rispetto alla lucentezza artificiale delle coste, il Memphis rap
era puro squallore, suono di una disperazione che solo il profondo sud americano poteva esprimere. Con la sua estetica e il suo suono, è alla fine risultato estremamente influente sulla musica degli anni successivi (date un occhio all’ultima copertina di Tony2Milli ad esempio).
3. ROCK SOVIETICO E NOVI VAL: FUORI DALLA GABBIA
Mentre l’Occidente si avvolgeva nel caos sonoro, nell’Europa dell’Est la musica trovava un’altra strada, un suo modo per resistere.
In un sistema rigido, dove il cambiamento avanzava a fatica ma le influenze esterne iniziavano a filtrare, il rock sovietico
e la Novi Val
jugoslava divennero la voce di una gioventù intrappolata, che trasformava la musica in un atto di sopravvivenza e connessione.
Il rock sovietico, incarnato dai Kino
, era un’arma sottile: melodie essenziali e testi poetici che parlavano di libertà, amore e perdita. Non cercava di gridare o distruggere, ma di costruire spazi di riflessione in una società repressiva, voce di una gioventù diversa rispetto ai suoi predecessori, più in grado di affrontare temi nuovi, e più ansiosa di avere la tanto sperata libertà.
La Novi Val
, dal canto suo, trasformò la Jugoslavia in un laboratorio musicale unico. Band come Pauk
, Haustor
ed Ekatarina Velika
fondevano punk, new wave e tradizioni locali, creando un linguaggio sonoro che rifletteva l’oscillazione del paese tra socialismo e apertura culturale, in un paese che dopo la morte di Tito cercava una nuova identità. Era un movimento che non distruggeva, ma cercava qualcosa di nuovo, costruendo un’identità collettiva in un’epoca incerta. Una comunità, un’identità, un ponte tra l’Est e l’Ovest, tra il vecchio e il nuovo, tra ciò che si era e ciò che si desiderava diventare.
Entrambi i generi rappresentavano una ribellione diversa da quella occidentale: meno gridata, ma non per questo meno spettacolare. In un certo senso questi generi erano l’opposto del caos occidentale: laddove il rumore
era distruzione e rivolta, questi generi si dedicavano alla costruzione di un rifugio sonoro. Erano spazi di libertà segreta, microcosmi dove si poteva sognare e dissentire senza essere necessariamente spinti al margine, ma non per questo meno ribelli.
4. LO-FI: EVASIONE IMPERFETTA
Poi è arrivato il lo-fi
, e il mondo ha rallentato. Era l’inizio degli anni 2000, quando tutto brillava di una perfezione plastificata: pop iper-prodotto, città scintillanti, tecnologia pulita. Il lo-fi, invece, era imperfetto, sporco, nostalgico: campionava suoni polverosi, lasciava i difetti nei loop e li chiamava arte. Ma questa non era solo musica, era l’inizio di un’estetica digitale che parlava il linguaggio dei meme.
YouTube
l’ha trasformato in un culto: live stream infiniti, gif in loop
, copertine sbiadite e animazioni anni ‘90. Ogni stream diventava un pezzo di memoria collettiva. Il lo-fi non ti gridava contro, ma ti cullava mentre il mondo accelerava, ed è stato questo suo non prendersi mai sul serio a renderlo l’incarnazione sonora del meme. La famosa “lo-fi girl”
, che studia senza mai alzare lo sguardo, è diventata essa stessa un meme eterno, remixato, parodiato, reso simbolo di una generazione stanca ma ancora online.
Sotto la patina chill
, però, c’è una ribellione silenziosa. Il lo-fi non urla, ma resiste: nel caos di internet, preferisce il rifugio dell’imperfezione. Non cerca di innovare, ma di riciclare, di prendere dal passato e trasformarlo in una nuova forma di conforto digitale. Ogni beat
è un glitch esistenziale, ogni meme è una ripetizione che sa di malinconia, di un tempo ideale che non è mai esistito.
Il lo-fi è l’evasione perfetta: non combatte, ma non si arrende. È un loop di suoni e immagini che fluttuano nel web, un meme infinito che ci ricorda quanto sia bello perdersi nel rumore bianco dell’imperfezione.
5. VAPORWAVE: SOGNI INFRANTI NEL MONDO DIGITALE
Se il lo-fi è il rifugio, la vaporwave
non è altro che il suo riflesso distorto. Non urla, non graffia, ma ironizza e deforma. Prende le reliquie culturali degli anni ’80 e ’90 e le trasforma in qualcosa che sembra contemporaneamente familiare e alieno, prendendole in giro, quasi a dirti “ma tu veramente ci credevi a sta roba?”
.
Non c’è rabbia esplosiva nella vaporwave, ma un’ironia sottile, una critica che non punta il dito ma ti invita a guardarti intorno. Ti fa fluttuare in un paesaggio sonoro
fatto di centri commerciali abbandonati e loghi sbiaditi
, lasciandoti con la sensazione che qualcosa sia andato irrimediabilmente storto. È un’estetica tanto quanto è una filosofia: un promemoria che, dietro le luci al neon e i colori pastello, abbiamo lasciato un vuoto, non così facile da colmare.
Eppure, non è solo denuncia. La vaporwave celebra anche quel vuoto, lo trasforma in un’esperienza quasi meditativa. Ti invita a fermarti, a contemplare la malinconia del consumismo, senza dirti cosa dovresti provare. È ribellione senza rabbia, un modo per appropriarsi del linguaggio del passato e renderlo qualcosa di nuovo, di inquietante, di stranamente gradevole.
Si nota perfino nelle copertine e nella sua arte (perché questo articolo si occupa della musica, ma la vaporwave
è un vero e proprio movimento artistico-culturale). Vecchi screensaver, paesaggi digitali
, pubblicità e icone distorte e frammentate, a creare un riflesso di un’epoca che non può, ma anche che non deve, tornare.
Nella vaporwave non c’è distruzione, ma un senso di disfacimento lento, quasi elegante. È la colonna sonora di un presente sospeso, che guarda al passato non per tornare indietro, ma per trovare tracce di un significato che forse non è mai esistito davvero.
6. LIVECODING E ALGORAVE: IL SILICIO BALLA, NON TU
L’algorave è un tipo di performance molto particolare: un evento, in stile rave, dove la musica non viene tuttavia suonata o messa in play da un DJ, ma scritta sul momento attraverso specifici linguaggi di programmazione (pratica detta appunto livecoding). Qui non ci sono setlist da rispettare o riff da memorizzare: c’è solo una schermata nera, piena di stringhe che diventano musica. I livecoders non nascondono niente. Scrivono il suono davanti ai tuoi occhi, ogni linea di codice
è una nota che prende vita e si evolve.
Non è perfezione. Non è freddo calcolo da intelligenza artificiale. È accelerazione. Qui il codice
non serve per ottimizzare o prevedere, ma per esplorare. Ogni comando digitato è un tuffo nell’ignoto, ogni suono generato sfida i confini della musica e il pubblico si muove a tempo di un caos calcolato che non obbedisce a nessuna regola tranne quella di esistere.
Ma l’algorave non è solo suono. È anche immagine. Sullo schermo, il
codice
scorre come un fiume di pensieri. Ti sfida a decifrarlo, a trovare un senso in quella danza frenetica disimboli
e numeri. Mentre un DJ tradizionale nasconde il suo lavoro dietro un banco di mixer, qui tutto è esposto. Ogni linea, ogni errore, ogni tentativo è parte della performance.
In un mondo dove l’intelligenza artificiale produce musica ottimizzata per essere consumata senza pensarci, l’algorave è un pugno nello stomaco. Non vuole piacerti. Non cerca di prevedere i tuoi gusti. È una ribellione che non urla, ma scrive, una resistenza che non si oppone alla tecnologia ma la piega alla volontà umana, rendendo labile il confine tra uomo e macchina, ma tenendo sempre ben a mente chi comanda.
È il suono di un presente accelerato, che si proietta verso il futuro a una velocità che lascia indietro tutto il resto. È una celebrazione dell’imperfezione umana mediata dalla macchina, un’esperienza che non si limita a intrattenere, ma ti sfida a pensarci su. E forse, nel suo caos, c’è ancora quel grido di ribellione che la musica, in tutte le sue forme, non ha mai smesso di portare avanti.
Quindi, abbiamo perso davvero?
E così siamo qui, spettatori di un funerale che non abbiamo nemmeno il coraggio di riconoscere. La bara è già pronta, chiusa con cura da mani invisibili, e dentro ci hanno infilato la musica, quella vera, fatta di ribellione e caos, di errori e di sfide. La stessa musica che una volta faceva saltare i timpani e le convinzioni, ora ridotta a un suono levigato, un tappeto sintetico che non chiede niente e non dà niente.
Oggi l’AI non crea musica: confeziona un prodott
o, che magari potrà anche essere orecchiabile, ma che non ha niente di umano, niente di vero. Obbedisce. Segue il mercato come un cane ammaestrato, pronto a leccare la mano di chi clicca “play”.
È un’allucinazione in slow motion: playlist sterili, curate da macchine che non sbagliano mai, composte da algoritmi
che ripetono ossessivamente ciò che già conosci, che già vuoi. Ti anestetizzano. È l’anti-ribellione definitiva, la perfezione senz’anima, dove non esistono più spigoli né angoli bui in cui inciampare.
Forse la musica è davvero morta. Non perché l’AI l’ha uccisa, ma perché noi l’abbiamo tradita. Perché abbiamo scelto il comfort invece del conflitto, la prevedibilità invece dell’improvvisazione, il marketing invece dell’arte. E allora forse il futuro è un silenzio perfetto, interrotto solo da playlist curate da macchine che non sentono, che non sbagliano, che non vivono.
Il futuro non è un funerale: è un laboratorio, un rave in cui il codice
balla al ritmo delle nostre idee. E se c’è una cosa certa, è che la ribellione, quella vera, non può essere ottimizzata. Niente playlist perfette, niente suoni che ti cullano. Solo esplosivi, luci stroboscopiche e un loop infinito di caos controllato. Se la musica vera è finita, allora sarà il momento di farla rinascere, un frammento alla volta, un colpo dopo l’altro. Alza il volume, fai saltare tutto. Non c’è spazio per il silenzio:
o suoniamo, o spariamo.