Una lingua che canta senza chiedere il permesso

Una lingua che canta senza chiedere il permesso
Lettura boomer
Dialetto veneto e nuova canzone, interviste a chi dà voce a una lingua troppo poco cantata

Il Veneto ha una strana reputazione:

Terra operosa, terra chiusa, terra leghista, terra da imitare, terra che non ride mai per davvero ma ride sempre per finta.

Ma sotto la scorza dura della parlata che taglia le sillabe come fossero assi di legno c’è una verità sonora che ribolle.

Il veneto è spesso stato usato come costume, siparietto, caricatura da teatrino popolare.

Ma, dagli anni ’90 ad oggi, qualcosa è cambiato: alcuni musicisti hanno deciso di trattarlo non come una macchietta, ma come una lingua viva, densa, capace di contenere rabbia, amore, lotta, disillusione.

Il veneto è lingua della strada e del mito, del bar e dell’altrove.

Non ha bisogno di essere sdoganato perché non si è mai sentito clandestino.

E soprattutto: fa male.

Se usato con serietà e consapevolezza, può essere uno strumento affilato per raccontare il reale con parole che nessun italiano standard saprebbe pronunciare senza vergogna.

Questa è una lingua che torna per stare. Questi sono alcuni dei nomi che oggi la usano per scrivere musica che non fa da sottofondo, ma che al resto del mondo non ha nulla da invidiare.

Giorgio Gozzo

Canta e suona coi Rumatera, gruppo punk originario del Veneto che canta in lingua. Nella regione ha avuto molto successo. Ha pubblicato 2 EP e 2 album solisti, dove approfondisce aspetti più personali.

Nel tuo percorso coi Rumatera, i testi provocatori e ironici sono diventati un segno distintivo. Adesso, con il tuo progetto solista, esplori invece temi più riflessivi e seri. Cosa ti ha spinto ad aprire questo nuovo capitolo artistico, e come si concilia con il tuo stile precedente?

Gozzo: Io ho sempre scritto molto, liberamente. Durante il covid ho scritto più del solito, ed erano tutti brani che in comune avevano una forte matrice introspettiva, sicuramente dovuta anche al periodo storico e alle vicende personali che stavo vivendo in quel momento.

Diciamo che ho molte personalità che convivono dentro di me.

Quindi per me non è strano voler esprimermi in maniera diversa. Fosse per me, farei tutti i brani del mio progetto solista con i Rumatera, ma occuperebbero troppo spazio in un contesto festoso e condiviso, dove ci sono altre persone con altre personalità che devono avere i loro spazi.

La scelta di aprire un nuovo capitolo è semplicemente dettata dal bisogno di lasciare i giusti spazi di espressione alle canzoni, che nascono da un’esigenza di espressione, dall’amore per la vita e tutte le sue sfumature.

Mi sento sempre me stesso in entrambi i contesti, anzi, ora mi sento più libero e bilanciato che mai, potendomi esprimere al 100%.

E se Gozzo, nel suo progetto solista, ha scelto di dare spazio a un’anima più intima e profonda, spezzando l’onda lunga dell’ironia per restituire al dialetto la sua carica emotiva più sincera, c’è chi questa serietà l’ha messa in viaggio.

Non un viaggio simbolico, ma un attraversamento reale di linguaggi, di culture, di frequenze.

Perché il veneto non è solo lingua del territorio: è una membrana sottile, capace di vibrare anche quando incontra ritmi che vengono da molto lontano.

Ed è proprio in questa intersezione che si muovono i Freve che Bruxa

Fanno danzare il dialetto, lo intrecciano al portoghese, lo caricano di significati nuovi senza mai tradire la sua origine popolare.

È una musica che parte da Caorle e da Venezia, ma si allunga verso Bahia, verso Recife, verso il nordest del Brasile, come un ponte di legno e tamburi.

Qui la tradizione non è revival, ma strumento vivo, e il dialetto non è più solo memoria: è gesto presente, lotta gentile, sfida al mainstream.

Visto il genere che fate, che ha profondi legami territoriali, conoscete i Veneti brasiliani? Ci avete pensato quando avete prodotto la vostra musica e/o formato il gruppo?

Risposta: Il progetto Freve che Bruxa è la liason tra i Freve da Samba, Daniele Galletta e Claudio Gucchierato, che fanno musica brasiliana in veneziano da oltre vent’anni, e me, Sara Bruxada, percussionista e autrice caorlotta trapiantata a Venezia per un periodo.

Dopo svariati anni di esperienze condivise, a ottobre 2021 esce il primo singolo dei Freve che Bruxa, Hemp Town, omaggio ad un caro amico, e vista l’accoglienza del pubblico, messo in piedi un repertorio nuovo, ci sono stati un altro singolo, Canto Para Oxalá, una serie di live e di festival.

Il disco De Nordeste a Nordest (uscito quest’anno n.d.r.) nasce da un’idea che stavamo coltivando da un po’, cioè spostarci musicalmente in una zona del Brasile caratterizzata da un genere tipico: la musica nordestina.

La fisarmonica, bene in vista sulla copertina dell’album e approdata nella famiglia dei Freve tra le mani di Paolo Matterazzo, è il nostro ponte tra due realtà distanti, in quanto strumento principale del quartetto base del forrò, assieme al triangolo, al pandeiro e alla zabumba.

Le comunità veneto-brasiliane sono però situate più nella zona sud del paese e per ora non abbiamo avuto contatti. Ma chi lo sa, magari prima o poi faremo un brano gaucho per far breccia nei loro cuori!

Posso dirvi che in generale dagli amici brasiliani, molti dei quali musicisti, abbiamo ricevuto dei complimenti che ci hanno lusingati parecchio.

Perché è vero che il nostro sound è brasileiro, però ci mettiamo molto del nostro, non cerchiamo di fare un copia incolla di ciò che farebbero in Brasile — non avrebbe nessun senso!

Ne traiamo grande ispirazione, lo usiamo come linguaggio, ma come per i testi, con grande libertà nelle scelte stilistiche

E perché scegliere di usare una lingua come il veneto, solitamente ritenuta “popolare” e destinata ad un uso di basso livello, per parlare di temi più intimi?

Partiamo dal presupposto che considerarlo “di basso livello” è un qualcosa che accade quando

“scrollato il letame dagli stivali, entriamo nella borghesia” (N. Balasso)

così come termini quali volgare, che di suo significa “del popolo”, prendono una connotazione negativa.

Goldoni era mona a scrivere le sue commedie in dialetto? Il Doge e gli eletti del Maggior Consiglio?

Vorrei precisare che i nostri testi sono in dialetto veneziano, non in veneto. Non è campanilismo o altro, semplicemente è così che si chiama. Per me quella che chiamano lingua veneta non esiste, un po’ come la dizione nella recitazione: chi parla così nella realtà quotidiana?

Ognuno parla con la propria cadenza, ognuno parla in modo differente. E questa cosa è una ricchezza spaventosa per chi è affascinato dalle lingue in generale, come lo sono io.

Abbiamo una quantità di dialetti e varianti, e quindi di termini differenti per dire le stesse cose, che sono estremamente legati al territorio, a quelli che erano i mestieri di un tempo, a ciò che circondava le persone e ne ha condizionato la vita, e quindi, la lingua.

Il dialetto è la prima lingua che ho imparato, è quella con cui interagivo (e interagisco) con i familiari, gli amici. È un qualcosa di viscerale, intimo per natura.

Anche se, essendo io nativa di Caorle, il veneziano l’ho imparato durante i 15 anni vissuti a Venezia, i testi vengono poi corretti da Daniele (Galletta n.d.r.) usando il Boerio, Dizionario del dialetto veneziano.

Young Corrado

Terzo e ultimo (ma non per importanza) artista di oggi. Alla stessa domanda risponde:

“Perché è così che arrivi al cuore di te stesso e di conseguenza al cuore di chi la pensa come te.

Credo che parlare in dialetto, chiaramente contestualizzandosi, non sia così di basso livello, anzi, può essere un valore aggiunto. Quando parlo con me stesso parlo in dialetto e mi sono chiesto: “perché non comunicare così anche attraverso le canzoni?”

Corrado infatti è esponente di una nuova scena, che sta prendendo sempre più piede in Veneto: ragazzi che rispondono a un’esigenza sempre più marcata del pubblico, che ha voglia di ascoltare musica non solo in Italiano, ma anche nella loro lengua mare, e che sia fresca, contemporanea.

Esiste effettivamente una comunità giovane underground di musica in dialetto? Se sì, com’è il rapporto tra i vari artisti emergenti?

Qualcosa di giovane c’è e ci stiamo muovendo bene. Ancora cantare in veneto non è super cool come in altre regioni, ma è questione di tempo. C’è tanta gente forte in giro.

Come ti è venuta in primo luogo l’idea di inserirti nella scena musicale veneta? E da cosa nasce il tentativo di fare musica fresca e al passo coi tempi in veneto?

In realtà ho accolto una sfida lanciatami dal grande Giorgio Gozzo. Lui mi ha consigliato di provare a scrivere in veneto e devo dargli atto che è stato un ottimo consiglio.

Quando scrivo in veneto mi sento me stesso al 100% e riesco a rappresentare al meglio quello che mi circonda, senza cadere nella “trappola” dei cliché dei testi in Italiano, che vuoi o non vuoi, soprattutto nel Rap, ti portano a dire le stesse cose di molti altri artisti.

Ti dirò: la percezione esterna della scena veneta è molto superiore a quella che noi stessi abbiamo.

Ricordiamoci che anni fa la musica in dialetto veneto è arrivata a Sanremo. Basterebbe che in primis noi stessi veneti credessimo di più in quello che facciamo e soprattutto in quello che siamo: già così si avrebbe un improvement non indifferente.

Il mio poi non è un tentativo: ho sempre fatto musica perché mi piace. La freschezza veneta è imbattibile.

Se per Young Corrado scrivere in dialetto è un modo per ritrovare autenticità ed evitare i cliché,. per Gozzo l’uso del veneto affonda ancora di più: diventa un gesto di appartenenza viscerale, che parla non solo a chi ascolta, ma a chi condivide lo stesso codice, lo stesso mondo. Anche quando questo mondo viene ignorato da chi dovrebbe rappresentarlo.

Perché scegliere di usare una lingua come il veneto, solitamente ritenuta “popolare” e destinata ad un uso di basso livello, per parlare di temi più intimisti?

Gozzo: Perché anche i boari hanno un cuore, anzi molto spesso più grande di chi è ad un livello “alto”. Forse non sono io che ho scelto il Veneto ma è il Veneto che ha scelto me.

Non ho mai ricevuto né da solo né con i Rumatera nessun elogio istituzionale per averlo fatto. Mai.

Non che sia importante, però è la conferma che non è mai stata una scelta furba o di comodo. Noi che da una vita portiamo in giro il verbo dei tosi de campagna anche in contesti internazionali, non siamo mai stati elogiati dai mille politicanti Veneti che tanto parlano di orgoglio Veneto ecc… Anzi: se guardate i loro profili spesso promuovono artisti che non c’entrano nulla col nostro mondo o addirittura artisti Veneti che hanno apertamente parlato male della nostra regione e dei nostri usi e costumi.

Ma sono famosi e allora tutto fa gioco.

A me piace esprimermi nelle canzoni come se stessi parlando al mio migliore amico, con il quale sicuramente parlerei in dialetto. Sono sicuro di avere tanti altri amici che non conosco ancora qui in giro, gente che apprezza quello che dico senza filtri.

Pensi che l’uso del dialetto sia una limitazione o che anzi dia più libertà espressiva?

Gozzo: A me dà sicuramente più libertà espressiva, ma è sicuramente un limite a livello di business nel mainstream musicale.

La questione è statistica. C’è poca gente che parla in Veneto e poca gente che ascolta musica in Veneto. Anche chi millanta orgogli ancestrali molto spesso poi si ascolta i neomelodici o i tormentoni vari delle radio.

Le radio locali in primis scimmiottano le emittenti milanesi, parlano in dizione ecc…

Quindi il limite nasce proprio da queste persone, che al bar parlano in Veneto ma poi negli ambienti di lavoro o nel momento di festa ricercano un ideale più impacchettato.

Il nodo, però, non è solo espressivo. Come ricorda Gozzo, il dialetto può essere libertà artistica ma resta ancora un ostacolo nel mondo della musica mainstream, più attento all’immagine che alla sostanza.

Eppure proprio qui si innesta una consapevolezza più ampia, che travalica il singolo artista: l’uso del dialetto è anche una scelta culturale, una forma di resistenza simbolica. Una traccia che resta.

Lo confermano anche i Freve che Bruxa, per cui cantare in veneziano significa dichiarare un’appartenenza, ma anche un modo diverso di stare nel mondo.

L’uso del dialetto per voi è anche un messaggio culturale?

Sì, senza dubbio. Il dialetto di per sé è cultura. Perché le lingue indigene dei popoli oltreoceano vengono salvaguardate e noi non dovremmo farlo con la nostra?

Siamo in continua evoluzione, molte cose col tempo si perdono, ma le canzoni hanno il potere di lasciare una traccia.

Cantare in dialetto non è solo un atto di radicamento nel presente: è anche una scommessa sul futuro.

Un futuro che, tra algoritmi e monoculture linguistiche, rischia di diventare sempre più uniforme e prevedibile. Eppure, come dimostrano le parole di Gozzo e dei Freve che Bruxa, c’è chi continua a crederci: chi pensa che la lingua del margine possa ancora avere una voce nel centro, purché sostenuta da coerenza, consapevolezza e volontà di restare fedeli alla propria storia, anche quando non fa notizia.

La musica nelle lingue regionali che futuro ha? È destinata a restare locale o può diventare fenomeno più ampio? E più in generale come vedi il futuro di questa scena “alternativa” in lingue regionali?

Gozzo: Io credo che sicuramente il futuro delle cose spetta ai singoli. Spetta a me scrivere canzoni migliori, promuovere meglio quello che faccio, non mollare questa missione.

Credo però, come dicevo prima, che il contesto abbia una valenza assoluta.

La differenza, per esempio, tra il supporto che hanno gli artisti Napoletani rispetto ai Veneti è disarmante: loro riescono ad essere veramente un popolo unito in questo, qui da noi invece c’è molto distacco, molta invidia, molto senso di vergogna nel sentirsi veramente Veneti al 100%, accettando tutte le sfaccettature che comporta esserlo.

Di conseguenza anche il supporto dei media.

Ogni tanto capita una congiunzione astrale di cose, come quando i Pitura Freska andarono a Sanremo.

Può succedere anche a noi. A dire il vero non ci siamo mai proposti finora. Molti non sanno che non è che “ti chiamano a Sanremo”: ti ci proponi tu, mandi il brano e forse ti prendono.

Ma con la musica ha poco a che vedere. È un circo mediatico.

Di sicuro è una bella vetrina, ma non è tutto. Io credo moltissimo nella coerenza, nella credibilità e nel lavoro a lungo termine per quanto riguarda il percorso di un’artista.

Se ci sono questi 3 elementi, la strada non può che essere quella giusta.

Mentre i Freve ci hanno detto:

Credo che la valorizzazione della propria radice in modo differente da quello che è stato fatto in Veneto da 30 anni di leghismo, sia un dovere.

Per me lo è. Le nostre tradizioni, la nostra cultura, sono molto di più che un’esca acchiappavoti. Sono ciò che ci ricorda da dove arriviamo e di quel rapporto che avevamo con la natura che attualmente abbiamo reciso completamente per dar spazio ai schei.

È una questione di presa di coscienza e ancora una volta è qualcosa di soggettivo. Non so proprio dire che piega potrebbe prendere la faccenda, per ora mi limito a dire che la vedo dura che l’IA possa arrivare a tradurre, comporre o cantare in dialetto.

Abbiamo un buon margine di tempo rispetto agli altri, chissà di non riuscire a sfruttarlo in qualche modo. Però chissà che deliri — “A Lessa, va remengotita…”

Young Corrado, da parte sua, non ha dubbi

In un panorama dove il dialetto è spesso percepito come un limite, lui lo rivendica come spazio pieno, come terreno libero in cui poter dire davvero tutto, anche quello che in italiano non sapresti nemmeno da dove cominciare.

Credi che cantare in dialetto sia una limitazione o che anzi dia più libertà espressiva?

Credo sia la massima espressione della libertà di parola e di conseguenza espressiva.

Ed è forse questo il punto. Non si tratta solo di musica, ma di preservazione affettiva, di una forma di comunicazione che non passa per i grandi canali, ma per le vene sottili delle relazioni, per i suoni che riconosci anche quando non capisci tutto.

In un’epoca in cui le voci sembrano tutte simili e la lingua si appiattisce per diventare algoritmo, trovare artisti che usano il dialetto per dire veramente qualcosa — e non solo per nostalgia o folklore — è un sollievo. E anche una piccola felicità.

Il cammino non è semplice. Le radio, le piattaforme, il mercato: tutto sembra dire “no grazie”. Ma queste voci restano. Resistono. Cantano in veneto come si scrive su un muro: non per farsi belli, ma per farsi capire da chi passa di lì e guarda bene.

A differenza dell’italiano, arrotolato nei codici, levigato ed illustre, il fratello umile, il dialetto, è vissuto all’aperto come un’erba selvatica, bagnato dalla pioggia dei secoli e come un’erba pertinace di gramigna, si è arrampicato sui monti, si è addentrato nei minimi villaggi, ha coperto ogni metro di terra dove viveva la gente comune del lavoro e dei sacrifici.
— Nino Pedretti

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