La mia storia d’amore con il Cynar è iniziata una decina di anni fa.
Da bravo minorenne veneto assetato, passavo i sabati sera con i compagni di liceo al nostro bar cinese di fiducia, l’unico della zona disposto a farci distruggere i fegati senza troppe domande.
Rappresenta tutta la genuina simpatia italiana del dopopasto
-Rocco Tanica
Stanco delle solite birre calde e delle vodke da discount (ancora sospetto che alcune delle mie idee più malate siano il risultato di qualche misteriosa sostanza russa infilata nella “Molotov” alla pesca che ci scolavamo ai tempi), decido di cambiare strategia.
In fondo allo scaffale noto una bottiglia verde. In un lampo, come un flashback dei Griffin, mi torna in mente la pubblicità di Elio e le Storie Tese: loro che partono per lo spazio a bordo di un’astronave a forma di carciofo sulle note di Gargaroz.
Scelgo il Cynar.
Non sapevo cosa aspettarmi. Mi immaginavo un sapore strano, forse troppo amaro, troppo da vecchio. E invece è stato un colpo di fulmine.
Da quel momento, il Cynar è diventato il mio amaro di riferimento.
Liscio, nello spritz, con la soda, su per il naso… in ogni forma era perfetto, lì per aiutarmi a contrastare il logorio della vita moderna.
Gli anni passano, finisco il liceo, vado all’università. Le scelte di vita mi portano lontano dal Veneto: mi trasferisco temporaneamente in Portogallo. Mi manca casa, mi manca il Cynar, e sebbene il Porto sia buono, non regge il confronto con gli spritz.
Una notte insonne, colto dalla nostalgia, mi metto a guardare video tutorial di indiani e, senza pensarci troppo, decido di creare un filtro Instagram dedicato al Cynar. Giusto per il meme.
Passa un anno. Cynar sbarca su Instagram con il suo profilo ufficiale. Panico.
E se si incazzassero per l’uso del loro marchio?
Inizio a immaginare scenari apocalittici: una mail minacciosa della Campari (che oggi possiede il brand), avvocati con la bava alla bocca, pronti a farmi causa per appropriazione indebita del carciofo.
Per precauzione, scrivo alla pagina ufficiale di Cynar:
“Salve, ho fatto un filtro Instagram sul Cynar. Se vi dà fastidio, lo tolgo subito. Fatemi sapere.”
Dopo qualche giorno arriva la risposta:
“Tieni il filtro.”
“Anzi, ti mandiamo sei bottiglie di cynar a casa.”
Questa è, senza dubbio, la più grande vittoria culturale della mia vita. E sancisce, una volta per tutte, la mia cieca fedeltà al brand col carciofo.
Poi, qualche giorno fa, la notizia: è morto Rino Dondi Pinton, l’inventore del Cynar. 103 anni, vissuti sempre nella stessa zona di Padova, l’Arcella.
Se non scrivo questo articolo ora (in pausa pranzo in ufficio), quando?
C’è qualcosa di profondamente affascinante nell’idea di prendere una verdura amara e renderla un liquore. È un processo che esiste solo qui: la capacità di trasformare il disagio in godimento, la necessità in lusso, la fame in sete.
Nel dopoguerra, l’Italia aveva fame. Ma più che cibo, aveva fame di crescita, di energia, di prodotti che dessero la sensazione di fare bene. Così, mentre le farmacie si riempivano di ricostituenti e vitamine, il settore degli alcolici faceva la stessa cosa: un amaro che non fosse solo digestivo, ma quasi terapeutico.
Far sbronzare gli italiani facendogli pensare di stare aiutando la loro salute.
Rino Dondi Pinton, classe 1922, forse con una virtù che lo contraddistingue dai suoi conterranei, non ha mai avuto il mito della scalata sociale. Una vita intera spesa a creare un’icona senza mai diventare lui stesso un’icona.
Pur avendo ottenuto circa duecento volte il successo che basterebbe a un boaro d’oggi per tagliare i rapporti con tutti i suoi amici e traferirsi a Dubai, Rino é rimasto in Arcella. L’Arcella, per chi non lo sapesse, è il quartiere più multietnico, proletario e incasinato di Padova. Una di quelle zone che non trovi sulle cartoline, che non finisce negli itinerari turistici, ma dove, almeno fino a poco fa, lo spritz era a 3 euro e il caffè costava ancora 1 euro.
Dondi Pinton non si è trasferito a Milano, non è andato in giro a farsi intervistare come genio del made in Italy.
Non ha mai cercato di trasformare il Cynar in un brand da aperitivo radical chic come un Aperol qualsiasi, suo concittadino.
Il Cynar era popolare perché era vero. E lui, che l’aveva inventato, era rimasto uguale.
Il Cynar, di fatto, è l’opposto di quello che oggi passa per drink alla moda.
Se è vero che il Cynar non é mai stato fighetto, non si può negare che gran parte del suo successo, oltre al sapore, è dovuto alle azzeccatissime campagne pubblicitarie.
Ernesto Calindri seduto al tavolino in mezzo al traffico, sereno, impeccabile, con un bicchiere di Cynar in mano è una reliquia della Prima Repubblica, un meme ante-litteram.
Il concetto è talmente potente che, anche fuori dal contesto storico, rimane comprensibile. Un uomo che sorseggia un amaro in totale chillanza mentre il mondo intorno a lui è nel caos. Alla frenesia della Milano da bere, Calindri oppone un tavolino in plastica in mezzo alla strada.
Non è solo un modo di vendere un prodotto, è un’idea: “il logorio della vita moderna” esiste, ma tu puoi scegliere di fregartene.
Negli anni ‘60, questa scena funziona perché è familiare.
Il boom economico sta accelerando tutto: le macchine, il lavoro, le città. Il traffico è una metafora della modernità che ci schiaccia. Il Cynar è la soluzione.
Cynar capisce perfettamente questa forza del proprio spot storico.
E fa la cosa più intelligente possibile: non lo abbandona, lo aggiorna.
Citavo inizialmente il motivo per cui io sono stato avvinghiato dalla bevanda carciofosa, la pubblicitá degli Elii.
Nei primi anni duemila, il Cynar non può più limitarsi a riproporre Calindri. L’Italia è cambiata, Berlusconi ci sta iniziando a mostrare le poppe e i culi, la pubblicità è cambiata, il pubblico ha sviluppato gli anticorpi contro gli spot troppo seri. Serve ironia, serve assurdità.
Trasformiamo il carciofo in un’astronave.
Elio e la sua band reinterpretano il concetto alla loro maniera: il logorio della vita moderna non è più il traffico, ma qualcosa di più grande, di universale. Il mondo è impazzito?Partiamo per un altro pianeta.
È una parodia, ma è anche una dimostrazione di rispetto. Perché, anche nel ridere dello spot originale, lo riprende e lo amplifica. Se Calindri era l’icona della Prima Repubblica, Elio lo traghetta nella cultura pop moderna, nel MEME.
Dal tavolino in mezzo al traffico all’astronave-carciofo, lo stesso messaggio si ripete in loop: qualunque sia la forma del caos che ti circonda, tu puoi sempre scegliere di berci sopra.
A dire il vero gli né gli Elii né Calindri si sono limitati a questi singoli spot, lascio al lettore la gioia di cercarsi gli altri su youtube, da Calindri che viene sfottuto dal figlio per aver urlato “lei non sa chi sono io” dopo un tamponamento, agli Elii che denunciano il Cinar con la I made in Chyna, la Cynar é sempre stata all’avanguardia in tema pubblicitario.
L’ultima trovata è stata diventare main sponsor di una squadra di Seria A, in un campionato dove gran parte degli sponsor parla arabo o inglese, il Venezia ha deciso di parlare veneto.
Pur non essendo particolarmente appassionato di Calcio, ho apprezzato molto il connubio squadra-sponsor, come Venezia il Cynar è il vecchio che non riesce a invecchiare; non ha bisogno di cambiarsi d’abito per diventare attuale. Lo è già, da sempre.
Rino Dondi Pinton è morto dopo 103 anni, dopo aver reso il Cynar la bevanda immortale, icona generazionale capace di rappresentare allo stesso tempo innovazione e resistenza, alla tradizione e cambiamento, senza perdere mai tutta la genuina simpatia italiana del dopopasto.
Ogni qual volta si ascolta musica, si ascoltano composizioni originali, alcune hanno sample, altre sono cover. Ma, quando si porta avanti un’idea di musica libera e creativa, non sempre bisogna essere così attenti al copyright, bensì saccheggiare le canzoni di quello che ci serve, sciacallare samples e beat, e arrivare a comporre con il frutto della nostra primordiale razzia: musica che ci aggrada.
Questa è la Plunderphonics, e qui su Blast, troverete un articolo capace di raccontare questo fenomeno, ancora e purtroppo: in secondo piano rispetto al mainstream.