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Materialismo e Idolatria: il Male in Italy

Materialismo e Idolatria: il Male in Italy
Lettura boomer
«L’Italia è una Repubblica oclocratica, ponfata sulla ricerca del lavoro. La sovranità appartiene al popolino, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla propaganda.»

La Costituzione dice così, circa, e io non mi sento di correggerla.

Un analogo atteggiamento lega il Ventennio al nostro ventennio: le inutili iniziative di carattere propagandistico. Ma lo prevede la Costituzione: «la sovranità appartiene alla propaganda, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dal popolo.»

Il liceo del Made In Italy è una geniale iniziativa di propaganda: per il popolino che si sente più figo ad avere una scuola che lo incensa 24/7 e per il pubblico di operatori turistici specializzati nella promozione di pizza, pasta e mandolino a tutti i tedeschi con cappellino Panama e Birkenstock e calzini.

Perché questo è ciò che si cela dietro slogan facili come Open to Meraviglia o valorizzazione del territorio e delle sue eccellenze (parola prezzemolina che sta bene ovunque insieme a merito)

Uno sguardo indietro: esisteva già un liceo molto simile.

L’Istituto Tecnico Economico ad indirizzo Turistico serve infatti a lavorare nel suddetto ramo del terziario. E ci sta: una scuola che insegni a tutto tondo come lavorare nel mondo del turismo, sviluppando competenze trasversali spendibili ovunque sembra in effetti un’ottima idea. Ma probabilmente è meglio ridurre il campo degli sbocchi lavorativi alla sola meravigliosa ed eccellente Italia.

L’attuale situazione: il Liceo Ginnasio Statale, Liceo Classico, insomma quello dove si studia il greco, con lo Scientifico, l’Artistico, il Musicale e Coreutico, il Linguistico e il Liceo delle Scienze Umane sono tutti Istituti superiori in cui si studia la storia dell’arte. Che manco a dirlo è quasi tutta italiana.

Al terzo anno di liceo ho infatti conosciuto la professoressa di storia dell’arte, che ha iniziato a ripeterci quanto superbo fosse stato il Rinascimento fiorentino. Non c’è che dire, veramente majestic, ma leggere ogni periodo storico in funzione del Cinquecento mediceo mi ha fatto odiare i toscani ancora di più. Come insegna Boris, infatti, hanno rovinato questo paese.

Riconosco che in Michelangelo e Leonardo stile e figura, forma e contenuto, idea e realtà si sposino in un connubio ideale, idilliaco, ma pensare che tutta l’arte da lì in poi sia solo declino mi sembra davvero esagerato, soprattutto prendendo in considerazione tutti i successivi grandi maestri che abbiamo avuto.

Perché anche se ho fatto altro nella vita, io non ho mai smesso di studiare storia dell’arte. Da una città piena di storia e cultura sono passato ad un’altra città piena di storia e cultura. È sufficiente abitare in Italia per esserne esposti. E la mia educazione scolastica è stata un indottrinamento permanente tale da rendermi un sacerdote dell’arte italiana.

Nel resto del mondo non è così: ci sono laureati ad Harvard ed Exeter (UK) che non hanno idea di chi sia Dante, figuriamoci Marsilio Ficino, Pico della Mirandola o Girolamo Savonarola. In Svezia o Danimarca la gente vive benissimo pensando che sia grande design quello di Ikea o The Flying Tiger.

Per questi vichinghi assistenzialisti l’Italia è il Belpaese del Bengodi, dove si va per le vacanze, che sembra un museo a cielo aperto con tutti i suoi monumenti e palazzi, ma che proprio come un museo rimane una cultura da attraversare per distrarsi, svagarsi, divertirsi, a volte pensare, ma poi lì finisce.

Dovunque la gente va a vedere le mostre per distrarsi, per rimorchiare, per avere qualcosa di cui parlare, come se andasse a vedere un film al cinema: finito il film, finita la pacchia.

Noi andiamo agli Uffizi per pregare. Di fronte a un Leonardo o un Michelangelo un italiano non avrà mai la sindrome di Stendhal, poiché il senso di sopraffazione sarà a sua volta sopraffatto dall’orgoglio del poter dire io respiro la stessa aria che ha respirato quest’uomo, ho calcato la stessa terra e parlato la stessa lingua.

Ecco come si è potuta affermare una presenza come quella di Vittorio Sgarbi: ora sono tutti buoni ad attaccarlo perché è indagato, ma prima tutti a dire sarà un maleducato, ma quando parla d’arte ne sa a pacchi.

Vorrei rispondere a questi boomer e boomeroidi che:

  1. è il suo lavoro;
  2. se studi tutta la vita queste cose non mi sorprende che tu ne sappia;
  3. non è un intellettuale di successo perché propone idee nuove, ma perché sa parlare bene: dice cose vecchie alle nuove generazioni;
  4. è il suo cazzo di lavoro.

Inoltre, sul critico d’arte, possiamo notare una dissonanza notevole: la stessa borghesia perbenista che si offende per i trapperini che vanno a dire le parolacce a Sanremo difende Sgarbi nonostante sia più famoso per i suoi caproidi insulti che per le sue effettive opinioni.

Perché Sgarbi è diverso da quegli altri screanzati: loro dicono le parolacce, ma vengono dalla strada, Sgarbi offende tutti dal suo scranno di potente critico di sticazzi, quindi deve avere ragione, dicono alcuni.

Classismo 2.0, dico io.

La verità è che l’aura sacrale dell’arte italiana è tanto potente da rendere sacro anche Sgarbi. Sgarbi parla sempre da un pulpito tra il predicatorio e il mistificante, quasi mai con tono oggettivo, ma sempre con un’ossessione per i maestri italiani come i top di gamma del mondo intero, da sempre. Ma la Storia guarda all’Arte orizzontalmente, senza gerarchie di sorta poiché si precluderebbe gran parte dell’innovazione.

Il Futuro sorge dalle ceneri del passato.

Ma il curriculum storico-artistico liceale è svolto da insegnanti che spiegano bene l’arte romana, frettolosamente il Medioevo, si dilungano sul Rinascimento, abbozzano il Neoclassicismo insieme al Rococò per sbrodolarsi in pseudo-filosofie dell’arte Romantica, per arrivare infine alle Avanguardie storiche a luglio.

È evidente che non ci sia posto per il presente in questo percorso. Io – figlio di questa scuola – non so stare nel presente, non so leggerlo e interpretarlo se non in funzione del passato, perché il passato è l’unica cosa che conosco.

Guardo le donne di Milo Manara, lo Zanardi di Pazienza, il Corto Maltese di Hugo Pratt convinto che siano tutte imitazioni scialbe e romanzate dell’opera d’arte pura, del Rinascimento fiorentino, o al massimo del Manierismo veneto. Questa è la scuola in Italia: mi insegnano prima di tutto una gerarchia – spacciandola per metodo -, per poi insegnarmi il mondo. E io dovrei innanzitutto saper disegnare come Michelangelo per poter dire qualcosa su di lui? Se non addirittura creare qualcosa di nuovo? Vadano a dirlo a Frida Kahlo, a Vincent Van Gogh, all’architetto Palladio, ad Antonio Ligabue, a Henri Rousseau detto il Doganiere o a Banksy, che di accademico non avevano un cazzo.

Io ho finito la scuola dell’obbligo non convinto di conoscere il mondo, ma consapevole di non poter comprendere il mondo con quello che avevo imparato alla scuola dell’obbligo.

E questo per quanto riguarda la Storia dell’Arte. Ma la storia della Letteratura Italiana (Italiano, per la fu Smemoranda) svolge la stessa funzione: incensare gli eroi del passato.

«Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di provincie, ma bordello!»

Purgatorio VI, 76-78

I programmi ministeriali prevedono infatti che chi frequenta un liceo si debba sorbire la lettura di numerosi canti della Divina Commedia, nonché dei Promessi Sposi. E questo durante l’anno, perché d’estate ci sono altre letture consigliate: Calvino, Hesse, Austen, Dickens e per i più basati Walter Scott: Ivanhoe.

La Divina Commedia ha l’esplicito compito di insegnarci da dove venga la nostra cultura (stando a De Sanctis), e lo posso accettare, ma I Promessi Sposi doveva essere la ventata di novità, il romanzo simbolo della cultura italiana contemporanea. O almeno così era nel 1923, quando la Riforma Gentile-Radice venne attuata.

Lo sguardo alla cultura contemporanea avviene solo tramite i podcast di Barbero o i libri di Alessandro D’Avenia da leggere durante l’estate. La scuola italiana è un processo lungo 13 anni per diventare perfetti signorini tardo-ottocenteschi, aggiornati sui classici in voga oltre cento anni fa, con uno skillset inadatto per muoversi nel mondo in cui viviamo. Viene da pensare che il termine post-moderno sia nato solo per spiegare lo scollamento tra preparazione scolastica e inettitudine alla vita in cui questo sistema d’istruzione ci getta da oltre cento anni.

Il passato è confortante: è l’eterno ritorno dell’uguale.

Sarà palloso, ma se una volta che avrò letto Dante potrò sentirmi padrone della letteratura tutta allora farò questo sacrificio. E una volta letto un autore così palloso perché Dante è palloso per un ragazzo nel 2024 come lo era nel 1300, con il suo moralismo cattobuonistalo difenderò per lo stesso motivo per cui si solidarizza con gli aguzzini. Perché Dante non è il padre della nostra lingua: è la prova del fuoco di un’enorme operazione di nonnismo.

E allora come tutti gli studenti italiani, passati sotto le Forche Caudine di «[tuo padre sembra] Dante e [tuo fratello] Ariosto» ci faremo forza a vicenda in virtù di un tragico retroterra condiviso.

E la cultura, da riflesso della società, e con essa del suo progresso-regresso, decade nella celebrazione di un passato idilliaco: l’ennesima riedizione del mito dell’età dell’oro, quando tutti si era felici perché non si aveva nulla se non una copia della Divina Commedia, che poi era nonno che la sapeva a memoria e la recitava ogni sera a noi nipoti davanti al fuoco.

Tutto molto folkloristico, ma in questo modo la cultura muore. Il passatismo uccide la cultura e il progresso in essa. Quale progresso? Per molti progresso è leggere la Murgia. Ma a loro piace il deserto, a noi le piramidi.

Arte - Made in Italy

Non siamo uguali. Si rimane tutti cristallizzati nel passato, convinti che rimanere immobili sia la soluzione migliore. Degli inetti alla vita. Italo Svevo/Ettore Schmitz era un uomo di confine: tra l’Italia e la Mitteleuropa parlava da italiano agli italiani: inetti, grandissimi inetti. Inabili alla vita poiché portati all’inazione.

In quel periodo meraviglioso che è l’inizio del Novecento nessuno sa più che fare, si pensa che ormai tutto sia stato scoperto, ci si accorge che è nata la società di massa e che ora sono cazzi vostri, di voi giovani, che vi formate leggendo i classici del passato, che riflettono un mondo che non c’è più.

Paura e desolazione percorrono l’Europa da cinquant’anni ormai, la decadénce è ovunque. Ogni uomo si guarda allo specchio e non sa più chi è.

Nella notte, un grido: Zang Tumb Tumb, aprite le porte al futuro. È evidente che non ci sia posto per il presente in questo percorso. Io – figlio di questa scuola – non so stare nel presente, non so leggerlo e interpretarlo se non in funzione del passato, perché il passato è l’unica cosa che conosco.

Quattro matti in culo (diremmo noi), che da Milano partono per Parigi per poi tornare a Firenze a menare il critico Ardengo Soffici. Guidati da quel basato di Marinetti, i Futuristi capiscono che l’unico modo per imprimere un’altra direzione al declino della decadenza è la violenza.

Avranno capito Nietzsche più di tutti gli altri? Boh, magari manco lo hanno letto.

Ma sanno che il declino c’è, e va fermato. Si immolano come uomini per ergersi a idee, salvandosi dalla società di massa. Non hanno bisogno di leggere Fisher, perché accettano le premesse della metanarrativa realista-capitalista, e vogliono spingerla alle estreme conseguenze, accelerarla, fino a farla disgregare.

Sono i nuovi Savonarola: la materia si è fatta idea traspirando nel concetto di cultura.

Ogni orpello di questo mondo va eliminato per l’avvento del regno dei Cieli, dice Girolamo, o per l’avvento del mondo Futuro, dicono Marinetti e amici. L’arte è cultura che è materia nobilitata da un atteggiamento affettivo, quasi religioso, ma in ultima analisi idolatra.

L’unico modo per opporsi al richiamo della materia è liberarsene. «Vanità di vanità» ci dice il Qoelet (1,2), e io obbedisco.

Come fece quel grand’uomo di Girolamo Savonarola farei un rogo di tutti gli idolatri della cultura che oggigiorno vivono in Italia, perché questi uomini ci rallentano, mordono il freno e si approfittano della democrazia e della società di massa per portarci ad un Rinascimento che non è mai esistito, perché ricordiamo che anche la ventata del novo stilo di Donatello e Brunelleschi era stata osteggiata dai passatisti.

Oggi i passatisti sono nei palazzi: tutta la classe dirigente sbandiera le eccellenze del territorio italiano per inorgoglire la plebe, bisognosa di attenzioni e conferme. Io percorro la strada dipinta dagli uomini dell’avanguardia e vivo pericolosamente, bruciando gli orpelli che mi incatenano al passato, a partire dal filo rosso che lega Sgarbi al liceo del Made In Italy.

Dove studiano oggi i suonatori del Titanic di domani.

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