Dopo i fatti di Pisa e Firenze – che fanno il paio con la repressione degli studenti a Torino – sono sempre più convinto che l’attuale governo odi i giovani più degli altri governi che abbiamo avuto.
Ogni espressione (adolescenziale?) di dissenso dovrebbe essere tutelata in quanto libera espressione di libera opinione in una presunta democrazia liberale.
Eppure, nella patria del libertarismo at its finest (dicunt…) un giovane si dà fuoco davanti all’ambasciata israeliana per protestare contro il genocidio in corso in Palestina. Io ci rivedo Thích Quảng Đức a Saigon nel 1963 e Jan Palach nel 1969, in barba a ogni linearità della storia.
Maledetto il paese che ha bisogno di eroi, e maledetta la democrazia che ha bisogno di gesti estremi di protesta. Dalla mia cameretta, con il mio laptop sulle gambe e una sigaretta in mano, io mi sento impotente.
Forse dovrei manifestare di più, convengo, ma mi sembra così patetico chiedere, implorare, cose che normalmente dovrebbero essere garantite: diritto di libera espressione e pensiero. Chi andrà in strada ci dirà che non sta elemosinando, ma sta rivendicando.
Probabilmente la differenza sta nel gioco di prospettive differenti tra chi siede nella cameretta e chi cammina in strada circondato da compagni di lotta.
Insomma, dovrei uscire per capirli.
Uno spin doctor è un mago della comunicazione, che ti dice che cosa postare su Twitter per entrare nei trending posts, come creare engagement tra commenti e ricondivisioni, creare materiale virale ed efficace. Comunicazione
, sembrerebbe, ossia il modo più efficace di trasmettere il significato X dal mittente A al destinatario B.
Sembrerebbe tutto semplice, detto così: ho un contenuto politico, come lo rendo appetibile? Sciocchi, chi li guarda più i contenuti?
Non serve proporre qualcosa di nuovo, non serve indicare un’idea o una proposta reale a cui rifarsi. Nessuno ha più il tempo di controllare, seguire il dibattito e votare per il candidato con l’idea migliore. La comunicazione è un sottile gioco di equilibri.
Da una parte un’idea vuota e vaga, in modo da non poter essere attaccata nella sua concretezza e specificità. Dall’altra parte un’idea che faccia appello a una parte istintiva, primitiva, presente in ogni individuo.
La parte animale, che sempre sta seduta nell’ombra ed esce nel buio dell’urna. Il nazionalismo, il razzismo, non sono deviazioni strane dalla naturale bontà dell’uomo, al contrario sono l’eredità ultima di atavici istinti tribali.
In tutto questo le persone assomigliano sempre più a pecore da guidare da una parte o dall’altra con la paura e la fame, la gola e l’avidità. Jason Brennan, in Contro la democrazia, ricordava giustamente come nei propositi dei democratici ci fosse un maggior coinvolgimento della massa nel processo decisionale.
Ma aprire a tutti la possibilità di scegliere non implica che tutti finiscano per interessarsi della miglior scelta.
Un esempio banale:
mi si rompe il lavandino → chiamo l’idraulico. Potrei aprire YouTube, investire cinque minuti nel tutorial giusto, correre al rivenditore di ricambi all’ingrosso più vicino e giocare a fare Bob l’Aggiustatutto. Lo farò? No.
Non perché io sia una cattiva persona, una persona disinteressata nel processo di emissione di acqua della mia casa. Ma ho altro da fare e a cui pensare. Ergo delego.
Benvenuti allora nella democrazia rappresentativa: burocrazia e giurisprudenza sono troppo difficili.
Appalterò tutto questo a un politico di mestiere, CHE TUTTAVIA ha bisogno del mio voto, della mia decisione per arrivare a governare.
È in questo scambio commerciale di favori elettorali che avviene il casino: responsabilità che si implicano a vicenda finché alla fine nessuno si prende più la responsabilità di niente.
Siamo riusciti a complicare una cosa così semplice come la vita in nome di una supposta giustizia collettiva che ogni giorno vediamo allontanarsi.
Il tutto per salvaguardare un supposto diritto di voto che corrisponde più alla pia speranza che la gente si interessi dell’auto che sta guidando, che non alla realtà dei fatti: ossia che l’auto è guidata dall’uomo che grida più forte.
Mi guardo e mi vedo per ciò che sono: un animale.
Ma dire che in quanto uomini siamo migliori degli animali pare davvero una bestialità. Sanno che cosa è meglio senza doverci pensare. E lo sanno a tutti i livelli: dalle mosche alle balene, passando per le api e le formiche gli animali ci guidano mostrandoci un’esistenza frugale, essenziale, priva di cose futili come i cellulari nella Tuta Gold o i gossip sui Ferragnez.
Le api e le formiche vivono in enormi comunità ordinate, senza questionare i bisogni della regina, che non viene rispettata in quanto regina ma in quanto ha il compito di portare avanti la specie. Ma anche questi termini sono sbagliati:
Gli animali non pensano, non come lo facciamo noi.
Fino ad ora sembrerebbe tutto già detto, tutto già visto, un misto di filosofie new age e un ritorno alle comuni hippie.
Niente di più lontano. Sto per iperstizionare fortissimo, e questo mondo non credo sia pronto.
Se seguissi la proposta di Brennan, al potere ci andrebbero scienziati e accademici (povero professore frustrato), i più competenti: dei tecnici. Un tecnico è l’incarnazione della tecnica, ossia l’esito della selezione naturale tra algoritmi, processi risolutivi per i problemi del reale.
Servirebbero 50 testate termonucleari per distruggere il mondo intero, ma ne possediamo 7.950.
L’’istinto degli uomini è sempre stato autodistruttivo, almeno fino ad oggi.
Ma da qualche anno un gran parlare si fa delle intelligenze artificiali: parrebbero la scoperta di questo secolo. Io mi auguro che sia così. Io bramo che sia così perché non ne voglio più sapere di politici corrotti e incapaci, più legati alla propaganda e al consenso che ne consegue che non alla corretta gestione del paese.
Io bramo l’algoritmo.
L’uomo è il più singolare tra gli animali perché è in grado di pensare, giusto? In parte. Anche altri animali pensano da Dio, ma solo l’uomo ha inventato/scoperto la matematica, e questo gli basta per modellizzare un mondo altrimenti caotico e ingestibile.
Nasce la tecnica, la mano si allunga fino a diventare il martello e la falce, fino alla ruspa e al trattore, al motore e alle ali. Ma la tecnica cade schiava del principio di morte e di piacere, si sottomette a quegli istinti che portano l’individuo – se in una posizione di potere – a danneggiare la specie.
Se però la tecnica si riesce a staccare dall’arbitrio (libero?) dei singoli, forse potrà salvarci.
Come? La modellizzazione matematica ha un solo ed unico fine: l’efficienza.
Modellizzare il mondo per controllarlo meglio. Matematizzare l’idraulica per irrigare i campi, contare gli acri per rendere efficienti i prodotti della terra, ingegnerizzare il disegno per progettare meglio, statisticizzare l’economia per farla funzionare. Quando l’evidenza del numero sopravviene alle ragioni del singolo, il singolo deve cederle il passo.
Ubi maior, minor cessat.
L’algoritmo dell’intelligenza artificiale è solo apparentemente una rete neurale. Non c’è coscienza, non c’è emozione, non c’è dolore e non c’è gioia.
E meno male. Della rete neurale ricorda solo la struttura a rete tra modelli di dati. Un modello viene confrontato con un altro; il migliore vince e va avanti, confrontandosi con un altro e così via. Il computer – calcolatore per gli estimatori del nostro Volgare – però capisce anche come può elaborare un modello che riunisca strategicamente i punti di forza dei migliori modelli confrontati finora.
Il reale non serve più, la matematica si fa e si regola da sola. A priori.
Un sistema di governo, una scelta politica, diviene modellizzabile. Quale assicura la migliore sopravvivenza della specie?
Portiamola avanti, prendiamola a modello.
In Fahrenheit 451, Ray Bradbury iperstizionava che i politici avrebbero avuto un ruolo sempre minore, diventando delle maschere prestate ad un gioco simile alla tifoseria di squadre da calcio. La prima teoria del personalismo politico? Forse.
Ma Bradbury glissava su chi governasse veramente in quella distopia. Perché di distopia si parlava. Se i politici sono marionette, facce buffe per cui tifare, chi è che governa?
La rete – neurale.
L’algoritmo. Bradbury forse l’ha previsto, ma non ha avuto il coraggio di dirlo a chiare lettere.
- Io voglio questo futuro, voglio un futuro automatizzato, dove la mia casa digitale si pulisce da sola e io devo solo interrogarmi su chi sia il più simpatico a LOL (spoiler: nessuno)
- Voglio un giardino automatizzato, dove io devo solo aprire la porta e respirare l’aria pulita, guardare il verde e lamentarmi degli insetti perché fa parte del gioco.
- Voglio un futuro dove il mio cervello non serve più a lavorare: avrò un algoritmo tutto mio in grado di lavorare al mio posto, che avrò fieramente ereditato dai miei genitori come ogni ricco che si rispetti (perché l’ascensore sociale, per quanto automatizzato, rimarrà rotto)
- Voglio un algoritmo che sia me e debba studiare per me in modo da raccontarmi i romanzi e le serie tv: perché dover guardare delle cose che mi piacciono per poi parlarne ad altri? Sembra un lavoro: simpatico, ma sempre un lavoro.
- Voglio un futuro dove non dovrò più pensare a pensare.
- Dove gli algoritmi faranno tutto per noi, perché c’è stato il momento in cui potevamo esercitare ciò che ci rende davvero umani:
scegliere.
E abbiamo scelto male.
Voglio, desidero, bramo il giorno in cui il voto non sia più necessario, perché un’equazione sceglierà meglio per tutti noi. Il mercato si autoregola? Cazzata.
Meglio modellizzare gli storici di tutti i mercati, ricavarne un algoritmo che garantisca a tutti un minimo sindacale
e poi lasciare a quella gigantesca black box tutto il potere decisionale.
Il mercato non si autoregola, tantomeno la politica.
Ci abbiamo provato finora e guarda dove stiamo: genocidi, guerre mondiali, crisi climatiche e Fedez e la Ferragni si sono pure lasciati.
Molto meglio farci da parte perché al momento abbiamo fallito.