In Barriera di Milano 2
ilarità indomabile, indocile, indolente,
leggerissima cretina
produce tante risa
dalla sera alla mattina,
risate a squarciagola,
boccate di gasolio,
rosolio di una volta,
ora amaro petrolio,
scacciapensieri scacciato, ringtone subentrato
per lo più da minareto
del mal di ventre
rimedio emetico.
Pensionati pensano ancora,
ma soprattutto pesano, ancòra
per i nuovi Giunti al Punto
sospinti da terra rossa,
- Ombre Rosse
non avrete il mio scalpo –
accorse, accorte,
san come fare già prima di arrivare,
avranno da insegnare,
hanno già da ridire.
Ride bene chi ride
con il Capitano Ultimo.
Lo stile è malvisto,
da sempre antiproletario
mentre l’artigiano più spesso l’ha capito
quando non l’ha tradito,
è ora e per sempre
scalciato da infradito
di trascinapiedi lenti
per cui
stile son tormenti e spaventi.
Ciabatte Adidas
di Adolf
per gli amici Adi,
Addis Abeba
Addio. Allah. Abemus.
Stile produce stilemi,
risorsa senza fine,
energia rinnovabile
come quell’ultimo film non finito,
un infinito
Petrolio.
In Barriera di Milano
vento nemico
indispone luride tendopoli
contro natura
che altrove spazza la pianura,
esseri urbanizzati affatto urbani
- non perdo occasione
che la rima mi tende
a schernire loro e le loro tende
con cui si schermiscono,
io li sfido alla scherma
imparata nella mia immaginaria
di samurai caserma –
incapaci di percepire
il vento del cambiamento
on a glory night,
invece di evocare un ventilatore
satellitare.
In Barriera di Milano
non sogno mai.
Manderò ad (A)Ramengo
sogni di gloria
di dare fuoco alle mie passioni di avventuriera,
pedona-padrona di girare i tacchi nelle piaghe
di una città cocente strane passioni.
In Barriera di Milano
il Natale è nero
e la notte bianca.
Come San Pietroburgo, prime capitali,
per un motivo e l’altro da pene capitali,
settecentesche imprese
di precisione, votate ad invecchiare dietro
facciate di facciata
da rimaner di stucco,
il solito vecchio trucco.
Polvere, un grigio balcone,
quella finestra andrebbe barricata,
diceva il Tiron di turno,
arrivato dall’Est di Roma,
Romagna in fiore,
barricadero vampiro di gas ed elettricità
Trans(il-vano) Europe Express.
“Il vampirismo e l’accusa del sangue”
che mai non langue,
langue & parole
Furio Jesi docet
out of the
ex-cathedra
Torino 1941 – Genova 1980
Se tanto mi da tanto
70 mi da tanta nostalgia
di Torino avrò il vintage look
come non mai
come nella città di Perla, dove gli abitanti
vestono solo abiti dismessi
prosaici o sontuosi
consunti o mai messi,
minimalisti,
da pirati della strada,
da smilzi Neroni,
da sciatori ninja,
da commissari Basettoni,
da subsonici eatatori slow,
da hipster bretellati
da tempi non sospetti,
da pirati in speed
e corsari di corsa per finta,
da circensi ai semafori
con o senza la bombetta
ma senza se e senza ma
un cocktail Molotov in mano,
da Gang sgangherata – con la P38 sequestrata,
contromano – qui al volante piaci
sei fai baccano,
da Prinz Eugen in bikini
tipo operazione crossroad
ma dall’indole più berlinese,
stesso berretto da matricolacamp MASH
gli anticapitalisti non badano a spese,
casseur sofisticati villani,
tipi a cui piace esser strani
senza troppa originalità
che a stento sento
autoradio stile autocorso,
steampunk della domenica,
oggi vaporwave
un giorno sì e l’altro pure,
senza targhe alterne,
per loro marmitte
equivalgono a cannule d’ossigeno,
assuefazione da stress ossidativo
esteem punk d’arrembaggio,
Lily of the Valley, Susa, si sa da mo’,
it sucks,
scusa,
suca.
Torino, non è un’idea come un’altra.
Cardo-decumani(a)ca
al cardio-palmo al contrario,
bastian-contraria divenuta
per troppa spocchia,
solo col colpo alla botte tengo botta,
cité frustrata da una noblesse copiata,
sulle ombre della Ville lumiere
in una caverna platonica
al di là del Frejus.
Torino mette tutti i puntini sulle i – billo!
appena può,
ma non allevia il casino,
appena può,
di un castello di carta
appeso ad un passato più grande di lei,
città caotica che pretende
di essere bon ton e dispensare brioche
poche, maledette e neanche subito,
di essere evidente
in tutti i punti di sutura
invece di usurpare
la città per bene,
di ambire alla città perbene,
di mischiarsi dissimulati
creando vero scompiglio nei benpensanti
non più accerchiati,
che per fare assedi ci van
grandi mezzi
van /væn/ van /væn/ van /væn/ e altri mezzi
(e altro diesel)
il Dasein del da sein
in centro o in alto
come sempre la crema,
Via delle Rosine
caramellate allo smog.
Infiltrarli telepaticamente con mezzi occulti
(altro che occultismo da passatempo)
serve un passe-partout,
finte associazioni come piace a loro,
ne fai così tante che desti allarme
lì dove non possono far luce
perché si scoverebbero da soli.
Imbucarsi, introdursi, intrigarli
nei loro posti,
nei loro pasti.
Altro che barricarsi dietro barriere
che manco vengono giù a tirartele:
le periferie le considerano
baraccopoli invalicabili
cavoli a merenda di chi se le merita.
«Venga a prendere un caffè da noi»,
dobbiamo dirlo noi da casa loro a loro
col telefono senza fili
in direttissima dalla
Riviera di Barriera.
Questo per chiudere i conti
della serva
con la grande borghesia.
Ma alla fine della fiera
e del Falò delle Vanità
Savonarola sarò
dalla sera alla mattina
di fuoco,
senza far bruciare le mie carni
- all’uso mi faccio vegana,
volta Gabbana,
Re Mi Do al Dolce,
Veganer Weg,
sebbene preferisca il WWW
e trovi sempre nuova ispirazione nella WWII
come una revanchista,
collezionista di memorabilia,
solo mossa da altri motivi,
più futili come futon
e mobili
puff, poltroncine, tavolini angolari,
qual piuma al vento,
ma anche nobili
ovvero capire
come preservare
invece che la razza
che genera stitichezza,
il genere umano
dalla sete di sangue
e capri espiatori
(e spia e spia e spia
sarei stata seduta stante,
in quel bel mondo,
non a caso sfinito,
infine belligerante)
dall’omicidio rituale
come dal suicidio collettivo sacrificale
capace di seguirci fin su Marte.
Fuoco fatuo
con potenza di fuoco
altro che Malle e La Rochelle,
- avevano da perdere tutta la nostalgia
che io non ho
ma su cui ho scritto la tesi di laurea
con cui ho concluso la mia gioventù bruciata
riiniziandola ignifuga con una fuga fugace,
pan per fügassa,
Donna fugata,
status quo paradiso perduto,
di tutto quel dolore sociale,
di memorie memorabile memoriale,
nostalgia oppio di perdenti,
del sistema cacciato dipendenti,
divenuti ex-dipendenti
o ex-dirigenti;
da Peter Pan
innata
non provo sentimenti sociali da adulti,
so che arriveranno gli indulti,
poi gli insulti,
fino a quando le macchine
riscriveranno con l’AI
la Commedia Umana
fino a renderla Divina,
scopriranno il 90%
della nostra intelligenza
criptata,
mentre noi potremmo darci alla poesia criptica
o per svagarci all’ippica,
per poi scrivere la filippica
di cui loro si dovranno nutrire,
di come vediamo la morale,
che loro devono applicare,
per farci tornare controvoglia
e ormai contronatura,
alla coltura della natura
che ci devono impartire
per scongiurare un prematuro
cosmico perire.
Quando il gioco si fa duro
stendo la carta della mia sicumera milanese
che ho come NFT
nel wallet mio repertorio
di DNA acquisito
attraverso la brina e la bruma
della monocoltura-monocultura
per osmosi nebbiosa
che il Nebbiolo
non annacquerà jamais.
Je suis
apocalittica disintegrata
sociologa disallineata e disubbidiente
squisitamente disappetente ai social
- causano anomia e anoressia –
et voilà già integralmente di buona lena
ricostruita nel metaverso
come in Buena Vista Social Club.
In Barriera di Milano
nessun negozio, gastronomia
o locale di prossimità,
(l’unico locale frequentabile
esportato via rider anche a Milano
è dovuto alla gentrificazione
alias il grande capitale per la ristrutturazione)
ma se te gusta hai tanta promiscuità.
Signora Gentrificazione,
ti invoco, prego e chiamo,
vieni qui un attimo
in Barriera di Milano.
Madama Gentrificazione
io ho creduto in te,
ti ho dato credito
(ma non ho sempre credit da spendere all’Edit)
non darmi indietro né terra né retta né reddito
ma rendita a merenda,
ora lavora te.
Cospito capisco
cognitivamente dissonante,
dissidente,
con quello che ci ha impartito il partito
unico
repositorio. R.I.P.
Con sto tarlo,
constatarlo,
dove, eroso
il consenso
del consesso
ha cambiato sesso
capitanato da Achille Lauro.
Aspettando Schettino si schiatta.
Resistere, resistere, resistere,
come una vietcong a trent’anni di miso,
underground spesso posa,
per me è guerra
scatenata senza preavviso,
(altro che 41 bis:
bisbigli fra bisbetici,
bisboccia di baby bambocci
che fiancheggiatori disubbidienti sull’attenti
dell’egemonia ideologica della guerriglia
scriveranno su tutti i muri,
tutti liberi tutte libere
e belle,
non avendo altri interessi
che maturano col tempo
- anarcoide si è costretti in fasce,
poi c’è chi si pasce,
pascolando per demo varie
tutte invarianti sul tema,
carriera non esiste).
Risparmiatemi
le mani sulla città.
Militari sergenti
dirigenti frequentanti militanti,
altisonanti,
altoparlanti,
ne servono
a palate a spalare
dove c’è ancora da proteggere
in dialetto o idioletto,
con gran diletto e riserbo del diserbo,
erbe-suolo-terra-fauni-flore in fiore
tu sei la stella, tu sei l’amore;
in città serve il gioco sporco
per tener pulito, ti fa schifo il pulito?
Perché ho la puzza sotto il naso,
trattengo il fiato
preferisco risparmiarlo
e spenderlo
subito come una giapponese
colta in flagrante
da deflazione imperante,
Impero d’Oriente.
A Torino trovi in tutte le salse la fassona
e ti chiedi se quella proteina
sia velleità simulata contadina,
braciole rubate all’agricoltura,
devastante desio di destrosio,
a pensare a quella mucca
al giogo di scappamento mi viene il nervoso,
troppe mucche scappate dalle stalle
in cerca delle stelle della città taurina,
finite sulla strada,
su polverose strisce slavate bianco-nere,
forfora animale
di giovenche
infornate col maiale,
informate male,
sulla condizione attuale,
polluzione percepita
che ti riempe la vita
agra
da Quarto di bue,
non c’entra il gender
nemmeno la razza,
la stalla o la stazza,
che tu sia mucca, toro, bue, manzo vitello,
tutto andrà in vacca.
La notte è fragile per noi
tutto resterà, tutto resterà
friabile come lo zucchero,
l’asfalto torinese
glassato sul Galup
di un pallido beige mai visto altrove se non lì –
in prossimità di quelle zebre azzerate
l’automobilista della città dell’auto
viene colto da furore, spinto, spinge
sull’acceleratore
di particelle,
ognuna con un nome e cognome
NO2
PM2.5 PM10
stragi impunite,
non c’è PM che se ne Capaciti.
TORI
NO
NO NO
NO
nonchalance
con tanto tuo charme
bon bon
bramo e sbrano.
Torino, io io io,
a yo-yo
come con la dieta di Worms,
non so se ti amo.
Abboccata all’amo
di una somiglianza esistente
esclusivamente nella categoria astratta nerd
“grande città del nord”
sogno più
esteem che steampunk
- retro + metro
- MITOlogie – dietrologie.
Anche quando Milano
dal capitalismo finanziario capitanata
sarà naufragata
e io con lei una volta
lì a fatica ritornata
col karma sporco di un acquisto all’asta
di un metro quadrato che mi basta
e Torino,
novella Città del Sole,
rischiarata sul fondo del barile,
modello di città sociale,
di umanesimo
che qui biasimo
per come è ormai venduto,
dirò,
io ci ho creduto
che tutta sta nobilitata miseria
fosse solfa semiseria
di chi non sapeva
che esiste anche un oltre
Il principio di piacere
un cupio dissolvi,
che colpo di scena
è progressista
e sì classista
che rende un qualsiasiqualunque qualunquista
al confronto una conquista.
Anarchia causa/effetto di monarchia.
In Borgo Castello La Mandria
locus di un matrimonio della mano sinistra
è chiaro
che la Caffetteria Reale
è più mero socialismo reale
senza però esserlo davvero
schietto e sincero
come da manuale
ma solo col cannocchiale
(storia della città
degna
della magia bianca e della magia nera
a tutti gli effetti bianco/nera
egemonia altoborghese,
optical ipnosi)
ma o cambiano le tovaglie di plastica ai tavolini
o cambiano nome al bar.
In Barriera di Milano
han portato a compimento
il non finito di Mark Fisher
oltre The Weird and The Eerie,
accelerazionismo di sinistra
o sta minestra o sta finestra
aut aut sta a out out.
In Barriera di Milano
il futuro
è scontato
come al discount,
discontent,
disclosed
su nuove enclousers
da Occupy
- all but
Wall Street –
Parlament
per parvenu
with boots
for All Stars
exclusive luxury
all-in
tutti dentro.
In Barriera di Milano
costruirò con la PNL
e briciole di PNRR
la mia personale gated solipsy
in cui giocare a guardia e ladro,
sarò la spy nella mia spa
fino a farne una S.p.a.,
fino al giorno ruggente
del rogito
in cui chiuderò dietro di me porta e portone,
salutando il mio libero balcone,
alla volta di una gita fuoriporta,
risposta contorta
alla decrescita infelice,
tutto mi dice
sul film invisibile
della barriera protettiva
in quel gran ghetto di Torino
che rigetto
come un Grande Gatsby
in magnifica ossessione
del mio ritorno
oltre la barriera del suono
nella mia Milano.
Mi-là-sì o mi-là-no
a Torino non tornerò.
Su Torino di getto
infine
ho già detto tutto.
Con la spunta alla voce
“triangolo industriale”
della mia vita
da installazione di
realtà aumentata
al momento
non l’ho spuntata.
Meglio
pura virtualità,
più vicina alla virtù
sulla carta
carta canta,
io sono stonata
e stoned per la fatica
che mi è costatata
la partita
con trasferta torinese,
moralmente esorbitanti le spese,
favola esoterica
quasi mi trasformava in chierica
di un culto del non ritorno
per cui chiedo lo storno.