Tornare agli anni Ottanta vuol dire proiettare la mente verso un mondo pre-maastrichtiano in cui la lira era ancora la nostra moneta, il Muro di Berlino era ancora saldamente in piedi, non c’erano vincoli esterni e l’inflazione galoppava stabilmente tra il 15 e il 20%, fino all’intervento provvidenziale di Craxi che la abbassò al 5%.
È la generazione degli yuppies, i giovani che rampano più dell’inflazione, della Milano da bere, del Drive In, del Bagaglino, di Ezio Greggio e Gianfranco D’Angelo, di Has Fidanken e Teomondo Scrofalo, dei film di Verdone, delle musicassette piratate Mixed by Erri, della pubblicità della Barilla, dei prodotti Bialetti, del gol di Tardelli e dei primi deliri cristologici di Celentano. Ma è anche il decennio della lotta tra PCI e PSI, del riflusso, del taglio di cinque punti della scala mobile, del referendum e della Marcia dei Quarantamila.
È il decennio dell’eurocomunismo, e dell’incipiente tramonto dell’Utopia. La grande Unione Sovietica sopravvive solo nei sogni estetici dei CCCP, che vorrebbero rifugiarsi sotto il Patto di Varsavia con un piano quinquennale e la stabilità. Per il resto, lo spaesamento è generale. Ciò risulta particolarmente evidente nelle canzoni di Gianni Togni, diagnosta inconsapevole della malattia mortale del secolo XXI, quel nichilismo che proprio allora metteva le sue radici tra una gioventù disillusa, disorientata, priva di valori e di riferimenti ideali. L’ospite inquietante
– mi si conceda quest’espressione galimbertiana – si presenta dapprima in una forma passiva che consiste nel crogiolarsi nel nulla, limitandosi a lamentarsi delle circostanze o a cercare soluzioni sbagliate
. Solo la generazione successiva, con le canzoni degli 883, sarà in grado di trovare una possibile soluzione, una vera e propria reazione al nulla.
Gianni Togni è una meteora della musica italiana, presto dimenticato ingiustamente. Classe 1956, nato a Roma, alto 176cm, occhi azzurri e capelli castani, iscritto al quarto anno di Lettere, così si presenta nel 1978:
Il Sole nel Leone gli conferisce un certo libertarismo (nel Trattato pratico di astrologia di André Barbault si legge che il motto del Leone è «io sono libero»), ma si tratta sicuramente di un Leone negativo
, influenzato da cattivi aspetti dei pianeti, perché, come vedremo, la Wille zur macht che è tipica del Leone è ripetutamente soffocata nel nostro Gianni Togni, riducendosi a essere volontà in potenza anziché volontà di potenza.
Sin dagli esordi, Gianni Togni si sforza per trovare una soluzione e s’illude di averla trovata nell’amore, un amore terapeutico che non avrà mai posto in questo mondo. Infatti, Togni è il cantore degli amori impossibili, disperatamente cercati, quelli che provocano immense delusioni. Maggie è il primo esempio di ragazza ingenua e capricciosa, una squattrinata dalle grandi ambizioni, destinata a ricevere grandi delusioni d’amore e a darne altrettante.
«Qualche volta per la via chiede soldi
Gianni Togni – Maggie
Per una cena non ne servono molti
“Sì, per oggi va bene, poi si vede”
Maggie è fatta così»
Maggie vorrebbe vivere con leggerezza, ma non si accorge che questa leggerezza è una condanna, è – Kundera docet – un peso insostenibile.
Scrive Pietro Citati: «Chi [come Gianni Togni] è [intellettualmente] pesante non può fare a meno di innamorarsi perdutamente di chi vola lievemente nell'aria, tra il fantastico e il possibile: mentre i leggeri sono respinti dai loro simili e trascinati dalla "compassione" verso i corpi e le anime possedute dalla pesantezza».
Non a caso
, finirà vittima di qualche marpione che le farà love bombing, le prometterà incontri che non avverranno mai, poi la rifiuterà, poi le dirà la fatidica frase: «Vorrei vederti, ma con più leggerezza, direbbe Calvino». Un comunista figlio di papà, un emerito coglione che di Calvino avrà letto solo una citazione falsamente attribuita, e non certo le Lezioni americane, per non parlare de Gli amori difficili. Uno che non conoscerà l’opinione di Calvino su Kundera.
Povera Maggie, vent’anni tra una settimana, dolcezza abbandonata…
«Ha gli occhi appena un po’ truccati
La dolcezza abbandonata
Ed è sempre innamorata
Di chi non l’ha trovataMaggie si lascia spesso andare
Perché crede nell’amore
Anche quello di poche ore
Che finisce all’alba su di un tram»
Ma la malattia di Maggie non consiste solo nel concedersi al dongiovanni – dongiovanni, non casanova
, giuro che vi spiegherò la differenza – di turno. Essa ha radici ben più profonde. Oltre a non prendere sul serio la vita, Maggie «non ha nulla a cui tiene davvero». Eccola, la mancanza di riferimenti. «Forse solo un anello»,
ma trovato in un giorno d’inverno. Solo la noia febbrile di un giorno di freddo può portare a trovare un simbolo in cui credere, in cui identificarsi.
Maggie è sola, e «quando è sola pensa di lavorare». Ma lo slancio vitalistico si esaurisce in pochissimo tempo, soffocato dalla noia del quotidiano: «dieci minuti ed è un’idea da buttare». Maggie vuole tutto, ma soprattutto niente, «fa quello che le viene in mente» e non avrà nulla in cambio. Il titanismo di Maggie si manifesta nel suo cercare l’infinito per imbattersi in cose materiali.
Eppure, la nostra eroina romantica non si arrende, non cambia mai:
«Ha conosciuto tanta gente
Quante volte si è sbagliata
Quanti l’hanno solo usata
Ma lei non è cambiata»
Ma è la conclusione a lasciare di stucco:
«Non le importa aver ragione
Lei non guarda mai dietro di sé».
A un occhio poco attento potrebbe sembrare una frase positiva: Maggie non guarda mai al passato, ha «lo sguardo dritto e aperto nel futuro» come Pierangelo Bertoli. E invece no. Siamo noi sporchi occidentali ad aver stabilito che il futuro è davanti a noi e il passato alle nostre spalle. Togni è uomo di cultura e sa perfettamente che nell’antica Mesopotamia e nel mondo semitico in generale è l’esatto opposto.
Davanti a noi c’è il passato, che possiamo vedere, dietro di noi un futuro per noi imperscrutabile. Maggie non guarda mai dietro di sé, quindi non pensa mai al suo futuro, perché crede di non avere futuro. È questa la rivoluzione nichilista in atto. Le sue prime avvisaglie le abbiamo in una canzone dei Nomadi, Un figlio dei fiori non pensa al domani (1968).
Ma è nell’estate del 1980 che Gianni Togni ottiene un grande ed effimero successo con Luna, inserita nell’album dal titolo wertmülleriano …e in quel momento, entrando in un teatro vuoto, un pomeriggio vestito di bianco, mi tolgo la giacca, accendo le luci e sul palco m’invento…
Virgole ad mentulam canis.
La seconda musa di Togni rivela sin dal nome una natura femminile ben più pesante, intellettuale e oscura. Un po’ muse malade, un po’ femme fatale, Giuditta che decapita Oloferne.
E Oloferne è l’inconsapevole Gianni Togni.
«E guardo il mondo da un oblò
Mi annoio un po’
Passo le notti a camminare
Dentro un metrò
Sembro uscito da un romanzo
Giallo
Ma cambierò, si cambierò»
L’amore di Gianni Togni consuma tutta la sua forza vitale: si annoia, va mesurando a passi tardi e lenti come il Petrarca, addirittura sembra uscito da un romanzo giallo. Promette a sé stesso di cambiare, ma nessun cambiamento è possibile:
«Gettando arance da un balcone
Così non va
Tiro due calci ad un pallone
E poi chissà
Non sono ancora diventato
Matto
Qualcosa farò, ma adesso no»
Ma perché mai uno dovrebbe gettare arance da un balcone o tirare calci a un pallone, disperandosi per una donna che non ci sta?
«Luna non mostri solamente la tua parte migliore
Stai benissimo da sola sai cos’è l’amore
E credi solo nelle stelle
Mangi troppe caramelle, Luna»
Dal canto suo, Luna è una ragazza viziata quanto Maggie, ma non altrettanto stupida. A differenza di Maggie, Luna sa quanto sia crudele l’amore e si mostra in tutte le sue sfaccettature, anche quelle più lunatiche, atrabiliari, melanconiche:
ha conosciuto anche lei l’horror vacui di un mondo senza Dio.
«E guardo il mondo da un oblò
Mi annoio un po’
Se sono triste mi travesto
Come Pierrot
Poi salgo sopra i tetti e grido
Al vento
Guarda che anch’io ho fatto a pugni con DioHo mille libri sotto il letto
Non leggo più
Ho mille sogni in un cassetto
Non lo apro più
Parlo da solo e mi confondo
E penso
Che in fondo sì sto bene così»
In questa catabasi infinita verso la follia, Gianni Togni giunge ad annientarsi completamente: se è triste si traveste come Pierrot, sale sopra ai tetti e grida al vento «Guarda che anch’io ho fatto a pugni con Dio».
E certo Gianni ha fatto a pugni con Dio, ma è tornato a casa distrutto.
A casa non legge più, parla da solo, si confonde, s’illude di star bene così. E poi parla alla Luna, quel romanticone. A mezzanotte puoi trovarlo vicino al juke-box, poi a scriver sui muri «Evviva le donne, evviva il buon vino», in una tragica celebrazione delle sue due condanne:
«E guardo il mondo da un oblò
Mi annoio un po’
A mezzanotte puoi trovarmi
Vicino a un juke-box
Poi sopra i muri scrivo in latino
Evviva le donne, evviva il buon vino».
Però fa piacere che Gianni Togni, come ogni buon uomo di cultura, abbia capito che le lingue antiche si imparano per poter fare sfoggio di erudizione e dire improperi in latino, greco, ebraico, sanscrito, ittita, accadico, sumerico, hurrico, etrusco, egiziano antico, etiopico e chi più ne ha più ne metta.
Non solo:
nonostante Luna gli abbia detto no per troppe volte, Gianni Togni continua a provarci insistentemente, e resta convinto che a maggio si sposeranno, o che in ogni caso lui e Luna saranno molto più che amici:
«Son pieno di contraddizioni
Che male c’è
Adoro le complicazioni
Fanno per me
Non metterò la testa a posto
Mai
A maggio vedrai che mi sposerai, LunaLuna non dirmi che a quest’ora tu già devi scappare
In fondo è presto l’alba ancora si deve svegliare
Bussiamo insieme ad ogni porta
Se sembra sciocco cosa importa, Luna
Luna che cosa vuoi che dica non so recitare
Ti posso offrire solo un fiore e poi portarti a ballare
Vedrai saremo un po’ felici
E forse molto più che amici, Luna».
Finirà accusato di stalking. Cosa fare allora? Semplice (1981)!
«Come stare fuori dal tempo
Quando fuori è mattina presto
Cammino con un’aria da fortuna
So che in qualche tasca devo averne
Ancora una da fumarmi dolcemente
Conto i passi pensando a niente
La notte è ancora attaccata ai muri
Va in mille pezzi se tu la sfioriSemplice
Come le storie che cominciano
Come dar calci ad un barattolo…»
E riecco le sigarette, la riflessione sul niente, i calci, il céliniano viaggio al termine della notte, il camminare sanza meta. Eppure, Gianni Togni non si arrende, ma come sempre lotta strenuamente:
«C’è sempre un sogno da raggiungere
Amore forza che è possibile
Andare avanti anche se fa un freddo cane
E ci vogliono imbrogliare».
Ci vogliono imbrogliare. Ma chi ci vuole imbrogliare? Ma loro, il padronato, le multinazionali, risponderebbe fantozzianamente il nostro Gianni Togni. In questa commedia urbana senza fine, con scene degne del film Impiegati di Pupi Avati (1985), la prima soluzione arriva nel ritornello, appena sussurrato, balbettato:
«Niniv, Niniv, Ni-ni-ni-ni-niniv»
O Ninive, Ninive, Ninive! 𒌷𒉌𒉡𒀀 (scriverlo in cuneiforme!). Ninive la Grande, alta città di Sennacherib dalle lunghe mura, fondata da Nimrod, nuova Babilonia, sede di Ištar e dei giardini pensili, capitale eptacollinare di ogni meretricio, grande tra i capoluoghi d’Assiria, da te mi uscirà colui che dev’essere nemico d’Israele, colui che emanciperà l’umanità dalla morale giudaico-cristiana. Egli starà là e pascerà con la forza di Adad, con la maestà del nome di Adad suo Dio. Abiteranno sicuri perché Egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra.
La svolta mistica permette a Gianni Togni di illudersi di poter godere di Attimi (1981) di felicità.
Ma la felicità è solo apparente: «quanta fatica per chiamarti amore»
. E nella tranquillità di un letto di campagna fa capolino la vecchia, inquietante domanda, che già fu all’origine della crisi nichilista: «Nel nostro letto scordato al quinto piano / c’è ancora voglia di capire cosa siamo».
Questa momentanea spensieratezza permette a Gianni Togni di lanciarsi in quello splendido manifesto vitalistico che è Vivi (1982).
«Vivi tutte le passioni
Con gli Oscar Mondadori
Di qualche anno fa
Tu luce del varietà
Mangi un panino
Nell’attesa del provino»
Gianni Togni non è aggiornato e si ritrova a leggere i bestseller del passato e intanto, in attesa del successo, è caduto nel vortice del paninaresimo, che tante vittime fece in quegli euforici anni terribili. Nel frattempo, il suo cuore non è più capace di provare emozioni, è una stazione senza treni, e lui si ritrova la sera con gli amici preda di un etilismo acefalo e rampante, dannato dionisismo.
«E a volte troviamo le occasioni
Per fare i tranquilli
Per starcene brilli
Parlando di storie e di illusioniChe abbiamo vissuto
E abbiamo sbagliato
Per via della nostra ingenuità
Perché siamo questi
Perché siamo tristi
E pochi siamo rimasti»
Gianni Togni cerca il suo Fellini, ma lo cerca nei posti sbagliati: «all’università o dentro a un locale che guarda gli altri ballare». Ma non succederà mai di trovare un Fellini all’università, se è vero com’è vero che «cultura è tutto ciò che non si insegna all’università» (Nicolás Gómez Davila)
Eppure, anche se c’è crisi…
«C’è ancora un po’ di allegria
C’è ancora un domani
Per due cuori solitariNoi da bravi bambini
Con tanti problemi
E con tanta buona volontà
Viaggiamo vicini come clandestini
Per questi tempi assassini
E giorni normali ci fanno soffrire
E ci danno brutti sogni di città
Perché siamo soli né vizi né fiori
Soltanto buone intenzioni»
Come sempre, la città è una brutta bestia tentacolare, anche per un paninaro rampante come Gianni. Ma ha davvero senso viverla questa vita? Questa vita «che cerchi e sei perduto / che più ci vuoi parlare / e più diventi muto»
. Per noi innamorati (1983), è così, la notte dura un po’ di più.
«E questa è la nostra età
Che se ne va, va via velocemente
Amore mio, così è la realtà
Ci siamo noi e la gente ed oltre non c’è niente
Niente di più
[…]
È questo l’amore per me
Lo credono un sogno e non lo è».
E un sogno non è neppure l’ultimo dei grandi amori di Gianni Togni, quello per Giulia (1984), ultima speranza, che lo porterà a elemosinare amore in cerca di salvezza, a confessare la sua disperazione, a non mangiare, a non dormire ormai da un secolo.
Siccome Gianni Togni non trovò una soluzione al suo male, proviamo a dargliela noi. Innanzitutto, occorre dargli un nome. Nella tradizione filosofico-medica medievale che tratta di amori impossibili, esso è chiamato mal di Saturno.
Nel Canone, Avicenna parla di amore malato quando un amore non si realizza fisicamente. È la melanconia, distinta dalla passeggera malinconia
, la malattia che consiste nel vedere innanzi a sé solo un futuro vuoto. È ciò che il Cavalcanti avrebbe descritto come oltremisura, come qualcosa che va oltre la natura. Secondo Avicenna, questo male colpisce prevalentemente i nobili di spirito, nei quali è evidente la sproporzione tra il desiderio e la possibilità che esso venga realizzato.
La sensibilità è cultura, e più si è sapienti e virtuosi più si è melanconici.
Anche Guglielmo da Brescia, traduttore di Avicenna, era convinto che questa malattia colpisse soltanto l’uomo di genio. È una concezione che attraversa i trattati cinquecenteschi, venendo rappresentata anche nell’incisione a bulino Melancholia I di Albrecht Dürer, colma di riferimenti esoterici al pianeta Saturno, alla regina delle scienze e all’alchimia. Qualche traccia di questa concezione si può rinvenire forse in Melancholia di Lars von Trier (2011).
Per Avicenna, si tratta di una malattia puramente fisica, che può essere curata solo con la congiunzione fisica con un’altra donna o tramite una penitenza, la contemplazione di una donna orribile e vecchia. Una sorta di memento mori: ciò che l’uomo desidera non è che morte, decadenza e disfacimento. Così, nel Secretum, Agostino invita Petrarca a riflettere sul fatto che egli ami soltanto il velo di Laura, che si perderà con la vecchiezza, e non la sua interiorità. Analogamente, Guido Cavalcanti nel sonetto Guata, Manetto, quella scrignutuzza cura la melanconia di Manetto Portinari ponendolo di fronte alla risibile visione di una donna brutta che si atteggia come bella in mezzo ad altre della sua medesima fattura.
Boccaccio, invece, non consente al suo Nastagio degli Onesti (Decameron V, 8) di ammalarsi. Il ravennate, innamorato di una giovane bella e salvatica, tale da non lasciarsi intenerire da una buona azione, precipita in un abisso che lo porta a desiderare il suicidio (qui il Boccaccio dimostra di conoscere la trattatistica sul mal d’amore), ma poi rinsavisce (o forse impazzisce) e decide di seguire il consiglio di amici e parenti. Nella pineta di Chiassi, egli s’imbatte nella scena di una caccia infernale, topos della letteratura di origine nordica (la caccia di Odino) che si ritrova anche in Dante (Inferno XIII: gli scialacquatori sono puniti dal morso viscerale dei cani), in Basile e in Calvino. Nastagio riuscirà a conquistare la sua amata solo ponendola di fronte a questo spettacolo orrorifico.