Finalmente.
Finalmente qualcuno ha deciso di impegnarsi per portare sul grande schermo l’immaginifica figura di Eduard Limonov, scrittore russo dall’alone mitico morto nel 2020 in piena crisi pandemica e tra l’indifferenza generale. Sarà forse la volta buona che le nuove generazioni si appassionino al nazionalbolscevismo e alla letteratura russa contemporanea.
Finalmente. O forse no.
Stiamo viaggiando troppo, questo ottimismo è patetico.
In un uggioso weekend di inizio settembre compro un biglietto per andare a vedere il film su Eduard Limonov (Limonov: The Ballad) del regista dissidente russo Kirill Seberennikov, espatriato da Mosca a Berlino perché condannato all’arresto da Vladimir Putin.
Per vedere un film di un regista russo dissidente che ha come protagonista uno scrittore russo dissidente, non esiste atmosfera migliore di quella offerta da una grigia giornata di fine estate in una delle più belle e inquinate città di Italia.
All’Eliseo di Torino, in sala, siamo solo io e una signora di cinquanta o sessant’anni, una sorta di cosplay di Sibilla Cooman, professoressa di divinazione di Hogwarts. Se mi trovassi in un romanzo-film thriller, dovrei sapere benissimo che quella Sibilla Cooman non è lì per caso e che qualcosa di inquietante si cela dietro la sua presenza. Purtroppo sono nella realtà: è per dire…in quella sala eravamo solo due persone, a conferma che pocanzi si stava «viaggiando troppo»
.
Alle 20 circa esco dall’Eliseo
, emozionato per il film appena visto (sono un fan del personaggio a livelli viscerali, quindi non sono obiettivo – qualcuno, del resto, lo è per davvero?),
ma anche con la pungente convinzione che a Limonov: The Ballad manchi qualcosa.
Il film è ispirato a una delle biografie romanzate più affascinanti dell’epoca contemporanea (Limonov, edito in Francia nel 2011 e immediatamente etichettato come «libro dell’anno»), elaborata nero su bianco dallo scrittore francese Emmanuele Carrére (classico scrittore di successo, ricco, borghese e di bell’aspetto, con la sua placida faccia di bronzo
).
Racconta la storia incredibile di Eduard ‘Edicka’ Limonov: poeta sovietico cresciuto a Charkov (Ucraina, attuale fronte di guerra), a cui la poesia di regime stava troppo stretta e decide per l’esilio volontario in America, destinazione New York. Ma nel paradiso in terra dei capitalisti le cose si mettono male, e il buon Edicka prima rompe malamente con la sua storica ragazza Jelena, poi finisce in miseria: passa dal fare la proistituta tra i barboni (con i quali ha rapporti sessuali che ci tiene a esternare) fino a diventare maggiordomo al servizio di un riccone americano. In tutto questo, non riesce nemmeno a pubblicare i suoi scritti.
Casualmente un editore francese si interessa a un suo manoscritto con la volontà di pubblicazione e, proprio quando aveva perso nelle speranze, Limonov si trasferisce a Parigi. In Francia scrive diciassette libri che vengono puntualmente pubblicati, rimanendo sempre all’interno di un pubblico di nicchia. Con il collasso sovietico decide di ritornare in patria:
non tutta quell’esperienza rivoluzionaria doveva andare perduta;
approfittando del caos e dei vuoti di potere, Limonov libera finalmente tutto il suo istinto politico fondando il Partito Nazional Bolscevico, incandescente mix di estrema sinistra, estrema destra (epurata dal razzismo e dall’omofobia) e cultura punk. Avversario di Putin (quantomeno nella politica interna), viene incarcerato per diversi anni e il suo partito messo al bando
.
Si può facilmente intuire che una vita del genere sta stretta anche a una biografia romanzata, figuriamoci in un film (sarebbe stata più adatta una serie).
Quindi, il regista Seberennikov ha l’arduo compito di sintetizzare al minimo le cose,
e le cose in questo caso sono il personaggio-Limonov.
Il punto di forza del film è proprio l’attore protagonista, perché Ben Whishaw sembra essere nato per interpretare Edicka: non si nota alcuna differenza, specie nel periodo parigino e in quello del ritorno in Russia, tra il vero Limonov e colui che lo ha impersonificato. Istrionico e schizofrenico, è proprio il Limonov che la nostra mente immagina.
Il fatto che la costruzione del personaggio manchi totalmente di pathos ed epicità fa però venire uno schizodubbio blast:
è stato pensato proprio in questo modo dagli sceneggiatori (per rievocare la freddezza con cui Limonov si narra nei suoi scritti) oppure è stata una costruzione riuscita male? Detto ciò, quel che fa più discutere è la scelta del materiale narrativo operata dal regista (ah, dimenticavo, non poteva mancare il momento in cui il vero Emmanuele Carrère dialoga con il finto Limonov…che simpatica marchetta!): Seberennikov ha scelto materiale da dividere in due grezzi tronconi: il periodo sovietico e post-sovietico, e i cinque anni a New York.
Il resto della biografia, compare a tratti, giusto per creare qualche veloce congiuntura narrativa e basta, e difficilmente riesce a rimanere sullo sfondo dello schermo.
Glia autori della pellicola hanno attribuito una grande importanza al periodo americano (dal quale Limonov trasse la «trilogia americana»), alla disillusione causata da un mondo che ci appare come libero, talmente libero da essere profondamente ingiusto.
Ho trovato bellissima la scena in cui Limonov, dopo uno snervante colloquio con un editore che gli chiedeva di essere più riconoscente verso l’America, esce dall’ufficio e nota per strada dei facchini che caricano quintali di manoscritti cartacei su un furgone come fossero immondizia
, pronti per essere condotti non si sa dove:
che sia la ‘stamperia’ o l’immondezzaio, che differenza vuoi che faccia? La ‘stamperia’ è in fondo un immondezzaio di libri che sarebbe meglio distruggere.
Gli anni di Limonov a Parigi, che sono il doppio di quelli trascorsi a New York e i più prolifici a livello di pubblicazione, sono frettolosamente trattati per passare di getto al ritorno in URSS. Perché Limonov ha scelto di ritornare nella sua patria? Che cos’era quel richiamo? Che ruolo aveva avuto la propaganda occidentale (che Limonov leggeva ed ascoltava in Francia) che ci proiettava verso la ‘fine della storia’? Come nasce il Partito Nazional Bolscevico, fondato da Limonov insieme al filosofo russo Alexander Dugin e alla stella del punk sovietico Egor Letov?
Ecco, tutto questo è stato saggiamente omesso, mettiamola così (la CIA ci osserva da quaggiù).
Il tutto viene sintetizzato in una frase che ben Whishaw urla al suo interlocutore liberale: «la Storia tornerà e vi prenderà a calci nel culo!». Ed è proprio quello che è accaduto, o che sembra stia accandendo: l’Occidente è caduto: la Storia è tornata.
Del resto il titolo che Seberennikov ha scelto per il suo film
, in cui al titolo del romanzo originale aggiunge :The Ballad, funge da spia. Un Limonov in versione ballata punk (tanto sesso e tanti amori), più che nazbol (anche il periodo passato da Limonov in Jugoslavia, al fianco dei guerriglieri serbi, è stato saggiamente omesso). Più esteta che scrittore rivoluzionario. È come se il regista abbia deciso di creare un personaggio che mettesse tutti d’accordo, dall’Occidente ai suoi nemici. Per carità, Limonov: The Ballad è comunque un gran film, tecnicamente impeccabile, ma con un Limonov che può andar bene per tutte le occasioni. Diciamo che…Seberennikov non ha osato (nonostante i continui richiami all’attuale guerra in Ucraina). Perché Limonov non può piacere a tutti
, ha passato una vita a farcelo capire con le sue azioni e i suoi testi.
Per lui sarebbe stato un vero fallimento: meglio fare il barbone a New York e succhiare grossi cazzi neri.