Uccidiamo la lotta di classe!

Perché i centri sociali hanno rotto il cazzo

Uccidiamo la lotta di classe!
Lettura boomer
Il centro sociale è un relitto di un mondo inesistente e un manifesto della morte cerebrale del XXI secolo.

È un venerdì sera nel centro storico della tua città, sei spaesato e non sai dove sbattere la testa per far fronte all’angoscia di aver perso il lavoro per colpa dellAI. Ed è così che, sotto al porticato di una qualsiasi Università umanistica, tra uno studente di filosofia in K-Hole ed una 14enne anch’essa in K-hole (ma con l’aggiunta di borghesissimi problemi edipici), cerchi conforto in mezzo a tutti gli altri sbandati dalla fiumana del progresso. Ti addentri nel più grande mausoleo del complesso cattedralizio costituito con cura dall’immuno-politica: il CSO (che non ha nulla a che vedere col suo omonimo deleuziano, bensì Centro Sociale Occupato).

Sei incuriosito e, un po’ perché annoiato ed un po’ perché feticista del vintage, varchi la soglia del portone. Prontamente il junior assistant del Centro Sociale™ ti chiede 5 euro per supportare il dj set di gente il cui nome fino a quel momento l’avevi letto esclusivamente nei post Instagram del Kollettivo Autorganizzato e bla bla bla. Ti sembra essere negli anni Novanta: musica dub, globe ai piedi e lanyard a reggere il pippotto usurato dai troppi free party, organizzati per una causa tanto a cuore alla geopolitica quanto alle proprie narici. 

Ed è qui, nel putridume fatiscente di un mondo ancora legato a stilemi, dogmi e precetti pre-2000s, che hai l’epifania politica più importante della tua vita: 

I comunisti sono i più grandi conservatori esistenti. 

Mentre la destra mondiale prende una piega sempre più cool e cyber-governativa la sinistra marxista non fa altro che adagiarsi sui sui lagnosissimi leitmotifs ottocenteschi: denunciano una borghesia ormai inesistente, fumano drum pensando al prossimo presidio simbolico, consumano la salma di Lenin a furia di fellatio teorici, discutono se scrivere trans-femminista con o senza trattino mentre quattro sfollati veri implorano aiuto. Sembrano immersi in un Medioevo intellettuale che ignora l’esistenza della filologia e mancano di contestualizzazione storica degli scritti dello stesso Carletto, facendo sì che la dottrina politica più influente del Novecento sia ridotta a vera e propria immuno-religione al servizio dei sacerdoti della Cattedrale.

A fronte di queste considerazioni si può sentire il grassissimo sghignazzare di Lyotard, che probabilmente se la starà facendo sotto dalle risate. Nel mondo post-postmoderno la sua teoria risulta infatti più vera che mai: la dogmatizzazione degli assiomi marxisti, nel suo continuo ingabbiare la forza dell’inconscio politico, blocca ogni effettiva alternativa rivoluzionaria o qualunque teorizzazione di essa. 

Dannati marxisti, hanno distrutto il marxismo! 

Vanno ai ripari nelle loro roccaforti anticapitaliste, luoghi fuori dallo spazio-tempo in cui lo stesso principio di materialismo storico pare essere ignorato. A ‘sti marxisti però non gli si può dire nulla, nemmeno se sei dalla loro parte: il caso di Williams e Srnicek ne è la prova. Teoricamente ignorati (se non addirittura shitstormati) da tutte le realtà autogestite e folk-politiche per aver osato dire “Ao ragà puzzate di vecchio”, e questo la dice lunga sulla gargantuesca apertura mentale™ dei sacerdoti rossi. 

Senza contare che la direzione artistica è un continuo deja-vu sonoro: stessi soundsystems, stessi generi, stessi trip (che poi non si è mai capito se il soundsystem siano le casse, i loro proprietari o un qualche culto di tossici che celebra da trent’anni due accordi e un tempo in levare). Sanno di rivoluzione quanto un post sponsorizzato di Ultima Generazione.

La dubstep ? L’IDM ? Un qualsiasi genere che non ci renda uno stereotipo sociale, politico o culturale ? No grazie, LIBERALE ! Per noi solo nerissima musica ripetitiva che ci ricordi quanto sia fiko farsi le treccine ai tarzanelli e fumare erba” 

Senza contare come queste realtà, che nella forma si pongono all’ascolto della collettività e dell’arte in ogni sua forma, sul piano pratico promuovono sempre gli stessi artisti vicini alla cerchia dei tankie-oligarchi del Centro, non lasciando nulla ai poveri cristi emergenti che cercano uno spazio in cui suonare musica nuova. In questo i CSO si rivelano più squali finanziari di qualsiasi azienda quotata a Wall Street, in quanto impongono un trust artistico dal peso non indifferente, visto il loro dichiarato intento comunitario (che date queste circostanze sembra più una personalissima mission aziendale). 

Una volta passato in rassegna lo staff arriva il bello. Quando ci si sofferma sui frequentatori medi del posto sono infatti ravvisabili contraddizioni tali da far scrivere a Pirandello una serie Netflix in 47 stagioni. Finisce il dj set, si accendono le luci, e di fronte a te si presenta un eterogeneo carnevale di persone: il raver veterano rimasto al ‘94 con un acido, lə compagnə lesbicə dalla chioma variopinta, il tipo con le perline alla barba che intreccia borsette di canapa, ma soprattutto una moltitudine assurda di ragazzine che probabilmente il Komunismo manco sa cosa sia. 

Sembra che negli ultimi anni, parallelamente al rendersi antiquato della dottrina, si sia prosciugata totalmente la virtù politica (sempre nel caso in cui il puro simbolismo possa essere definito come tale) legata alle zone autogestite, lasciando spazio al solo piano estetico, molto appetibile alle più labili menti under 20.

Ed è questa l’ultima battuta per cui il centro sociale ha rotto il cazzo:

Nel suo tentativo di essere antisistema è stato inglobati dal sistema stesso, diventando un dispositivo al servizio della società delle apparenze. È un posto frequentato unicamente per autoerotismo morale ed estetico di giovani “alt” in cerca di una motivazione che giustifichi la loro diversità (gettandoli pertanto in una discordanza senza precedenti, visto il loro ardito tentativo di sfuggire dalle medio-borghesi dinamiche dell’apparire). Quella stessa diversità sbandierata su Internet, probabilmente in una storia in evidenza con l’emoji della bandiera o forse con un tag in bio al Kollettivo, insomma: 

…un giaccone color nero che marca la diversità.

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