Veceta par che se drio cagar
Spesso le memorie d’infanzia si cristallizzano nella nostra mente, per un principio di nostalgia, o per altre ragioni più scientifiche che può meglio argomentare un terapeuta, a cui potete rivolgervi nel caso l'aveste.
Ma a scrivere, almeno per alter ego fittizio, è un bardo che canta di avventure e perché no, di viaggi, oggi sempre più spesso raccontati da quel centinaio di vlogger invadenti che colmano i feed, facce serio-simpatiche che riempiono gli schermi per dire cose che potrebbe dire chiunque, anzi, che in fondo spiegano a tu che li guardi come devi organizzare il tuo viaggio, perché come l’hanno fatto loro è bello, giusto, e come lo potresti fare tu, chissà
.
Il viaggio della piccola o media borghesia italiana del 2024 è, si sa, il Giappone. Ci è andato chiunque abbia un contratto di lavoro regolare, l’i(n)stat(gram) lo conferma
. Dunque, siccome nel dubbio bisogna vloggare
, tanto vale farlo a modi Blast.
Veceta par che se drio cagar
Aaaaaaaaaaaaggggggggggg
Risuonano le parole di mia mamma che mi sfotteva in dialetto veneto mentre guardavo tutto coinvolto il mio Dragon Ball
, non capacitandosi come alla mia generazione potesse piacere un cartone in cui protagonisti sembrano defecare sonoramente durante ogni episodio
. Veceta, che nel dialetto in questione significa vecchietta, e non ci vogliono menti argute per coglierlo, stava per Vegeta, il coprotagonista dell’iconico anime, che narra, almeno per quanto ne abbia capito mia mamma
, le imprese di combattenti cacanti che sprigionano urli liberatori previ lunghi caricamenti che possono durare intere puntate. Cacanti come i cervi di Nara, la città instagrammabile
che si offre ai visitatori della terra del Sol Levante come amabile luogo in cui ammirare la bellezza di mammiferi che fanno il loro, tra cui cagare di continuo senza remore
. Ci sono viali di bancarelle per turisti, giapponesi inclusi
, perché in Giappone i giapponesi che visitano per turismo sembrano provenire da un altro paese per entusiasmo e stupore.
Percorrendo il vialone pieno di cacche, cervi e persone, si arriva a un grande tempio con un budda gigante
, sì perché il buddismo tira assai da quelle parti.
E di fatto il Giappone è pieno di templi, come in Italia ci sono tante chiese. Forse in realtà in proporzione vince l’Italia. Questi templi sono mediamente belli, soprattutto quelli colorati
, ma alla lunga si ha pieni i coglioni di visitarli. Ricordo quello nella località di Koya-San
, rossofuoco come il gioco di Pokémon, arrogante ma anche elegante: ci si toglie le scarpette per entrare, altra usanza che alla lunga può tediare il turista occidentale
. Su Koya-San
vale la pena soffermarsi. È un paesino molto verde nascosto tra i monti, che in realtà sembrano più delle colline per l’altezza non così elevata. Immaginate la Città del Vaticano, però completamente diversa, completamente nipponica. La si raggiunge con doppio treno e funicolare, più bus. Tra le attività tipiche di questa località spirituale, oltre alla visita dei bei templi via via sempre più noiosi, si usa immergersi nudi negli honsen
, le tipiche terme giapponesi solitamente non sfarzose, le cui vasche bruciano gli animi oltre che la pelle, poiché l’acqua scotta ma fortifica la tempra di chi, come i veri samurai
, sa sopportare il dolore. Poi ci sono i monaci-albergatori
, che ospitano i turisti a pagamento e a piedi scalzi presso i lori templi-resort
, pronti a celebrare il rito spirituale del mattino, ai quali si può partecipare previa alzataccia, sempre seduti per terra: non c’è il vecchio prete cattolico che ordina alternativamente di alzarsi e sedersi ai fedeli, dunque anche qui si soffre, come negli honsen, ma seduti e senza panche. C’è pure un cimitero molto molto lungo, pieno di tombe, tra cui a sorpresa quella della Panasonic, che balza subito all’occhio pur non essendo chiaro se sia una specie di mausoleo privato.
Ai defunti vengono offerte in dono beni di consumo di tutti i giorni, tipo bibite gassate e ciotole di riso. Ricordo in particolare dopo la lunga camminata nel lungo cimitero la fame che mi è salita, e il piatto noodle senza brodo serviti sul ghiaccio
che ho mangiato. Voi direte che schifo, io dico che bontà, importiamoli e fuck you made in Italy dei nostri governi noiosi.
E ora che è stato toccato l’argomento culinario, sfatiamo subito un mito: il sushi in Giappone non è così popolare. Non è come la pizza per noi dell’italiosfera, no, il sushi per i giapponesi, volendo fare un esempio a caso, è come fosse l’hamburger per gli italiani. Probabilmente si potrebbero trovare analogie più accurate, ma il concetto dovrebbe essere chiaro:
il sushi è qualcosa di molto occidentale.
Ciò non significa che non sia buono, tutt’altro. Ma per i Giapponesi la zuppa di miso, le ciotole di riso, il ramen e la tempura sono i grandi classici quotidiani, al netto delle altre centinaia di ricette che cucinano e che fa di loro un popolo che va matto per mangiare e far rumore mentre lo si fa: ssslurp
. Altra parentesi gastronomica: il pesce palla esiste, viene pescato e quindi ucciso, e, se servito a tavola crudo, c’è bisogno di una licenza ad hoc per farlo, perché è ovviamente velenoso, ma è buono e posso confermarlo, altrimenti non sarei qui a raccontarlo.
Quindi, se mai doveste fare una gita nel paese del Sol Levante, non diffidate da un abile cuoco che vi propone di assaggiare il pesce proibito, non fate come Gesù nel deserto con la serpe, ma fate come Adamo ed Eva!
Ora mi sono perso nel racconto, come mi sono perso all’interno di quei centri commerciali scintillanti che si chiamano Don Chisciotte, anzi, ho sbagliato, Don Quijote. Sono dei multipiani pieni di qualsiasi cosa: dalle scatolette lotteria contenenti Pokémon diversi, che compri senza sapere se ti verrà fuori un leggiadro Lugia volante oppure un Psyduck sfigato, che comunque ha il suo flow, a orologi e valigie di marca, fino ai prodotti per strapparsi i buchi neri, anzi i punti neri dal naso.
Quei Don Quijote sono la rappresentazione lampante dell’ultra consumismo giapponese:
bisogna comprare tutto senza avere bisogno di niente.
Altro che il minimal design e i due piattini col paio di bacchette, quelli sono dei consumatori seriali. E ci casca anche il turista, inerme di fronte a tutto quel luccichio di cose futili.
E se ti piace One Piece sei completamente fregato: sono quindi fortunato a non averne mai visto un episodio o letto un numero. In questo senso Tokyo è un imbuto che risucchia qualsiasi senso del risparmio e che disintegra ogni freno inibitore del consumismo più becero, ma lo stesso meccanismo famelico si può riscontrare anche le altre città, ricostruite nel secolo scorso per dare una nuova casa al popolo giapponese
, ma per fotterlo anche nell’animo, così come il turista invasore. E poi la maggior parte di queste cosine effimere non costa chissà che, e dunque per questo non c’è scampo: si compra o si compra.
Coraggiosi e puri sono coloro che di fronte all’oceano di cotanta merce desistono dal farla propria.
In Giappone si produce, si consuma e si inquina, come nel resto del mondo, con qualche ossessione in più per la pulizia, Tokyo esclusa in quanto grande metropoli di non semplice amministrazione.
In Giappone allo stesso tempo le cose si prendono sul serio, e ci si prende sul serio. Per esempio, c’è chi di mestiere fa parte del personale ferroviario, e passa le giornate davanti ai binari a dare qualche tipo di indicazione, per lo più controlla, supervisiona, e lo fa con il credo di un manager che sta facendo carriera a Milano, nonostante la professione dell’uomo che passeggia vicino ai binari, salvo prova contraria, non sembra essere così ambiziosa. Eppure la convinzione
a questi individui non manca, come a quelli che con la paletta dirigono il flusso di persone che passeggiano vicino ai cantieri, indicando di proseguire dritti secondo il senso di marcia come si sarebbe fatto senza l’indicazione di quei tali con le palette luminose. Queste sono peculiarità che a una persona occidentale
, cresciuta con determinate abitudini e principi, non può non notare passeggiando tra le numerose vie di queste città che sembrano provenire da un futuro perduto, fatto di cartelloni e neon sfarfallanti, locande fumanti e persone che si mettono in fila, uno dei passatempi più apprezzati dai giapponesi: file a “L”, a serpentina, file di ogni tipo basta che siano file.
È un popolo ordinato, ligio alle regole, pronto a consumare e ubriacarsi velocemente all’occorrenza, timido e poco propenso a interagire con l’ignoto, e dunque con i foresti turisti, se non per dare aiuto o un’indicazione, in una lingua che non è di certo l’inglese, poiché poco avvezzi e soprattutto poco sfrontati nel tentare di parlarla. È un popolo certamente rispettoso, sicuramente più di noi cialtroni italiani, ma pazzo dentro, propenso al gioco e alla ludopatia, ai pachinko, saloni di slot machine in cui si bruciano risparmi e pensioni, ai karaoke, che ora si trovano anche in Paolo Sarpi, più costosi perché ovviamente milanesizzati.
Plotwist: il Giappone attualmente costa poco, mentre l’Italia è sempre di più una gioielleria.
Osaka, tra le città della parte centrale del Giappone solitamente visitate durante il primo viaggio in questo Paese
, incarna questo spirito pazzerello, con qualche interessante eccezione.
Una sera, mentre passeggiavamo io e i miei compagni di viaggio ci siamo imbattuti in un piccolo locale in cui si faceva una bella baldoria. In fondo un bardo musicista vestito da lupo suonava no stop una specie di diamonica, strumento che richiede una certa resistenza polmonare. Al suo fianco ballavano le hostess di Lufthansa del nostro volo, belle brille, un tavolo di coreani completamente in botta, uno dei quali a un certo punto si è infilato una sigaretta nella narice, i proprietari di una certa età tutti sereni a vendere birre, quella che pareva essere loro figlio che scaldava del cibo alla piastra, batteva le forche e invitava gente da fuori a unirsi alla festa, una coppia di italiani in luna di miele che ci hanno detto:
Avete presente Napoli? Ecco, Osaka è la Napoli del Giappone!
E se Osaka è la Napoli del Giappone, Kyoto è la nuova Fiume, perché ovunque ti volti senti italiani e italiane alzare la voce.
Ci siamo spinti fin là, senza però lanciare fogliettini da un aereo, ma infiltrandoci gradualmente nella città, fino a conquistarla, saccheggiando senza pietà i negozi di souvenir. Sarebbe però a questo punto utile importare una cosa all’interno dei confini nipponici, e non sono i pomodori, bensì i cestini. Pare che pochi anni fa qualcheduno abbia fatto un attentato depositando dell’esplosivo in un cestino, e da quel momento questa utile invenzione è stata bandita, se non nelle adiacenze di alcuni distributori di bibite.
La monnezza si tiene in tasca in Giappone, non ci sono alternative.
Potrei andare avanti a lungo a raccontare ma la mia deontologia bardica non me lo consente, in quanto a dilungarsi nei racconti leggendari di luoghi inesplorati si finisce di fare per fare vlogging, e come detto nell’incipit ciò non va bene.
Non rimane dunque che portarsi a casa un pensiero, sempre che ci sia spazio nel bagaglio supplementare gonfio di souvenir inutili, colorate cianfrusaglie, che in gergo si definiscono giapponesate. Pensiero che diventa tesi e che quindi consente di allontanarsi dal tetro universo del semplicistico vlogging
, verso invece il vento che soffia in direzione del pianeta Blast, la sfera in cui sopravviviamo ogni giorno, nella quale le cose visibili e percepibili si mischiano e si confondono
, come oriente e occidente, sistemi caratterizzati da apparenti radicali differenze che soltanto osservatori sensibili possono mettere più a nudo, e forse, smascherare.
Il sole leva sopra le terre di un paese fatto di isole longilinee, nostalgiche, pure ma allo stesso tempo imperfette, dunque dotate di vera bellezza. Il Giappone è un paese ordinato, pulito, idealizzato da chi non lo abita, ma lo visita soltanto, o lo sogna da lontano.
Comprenderlo davvero richiede un visto turistico per permanenze superiori ai trenta giorni, ma per scorgerne le crepe nascoste bastano occhi curiosi, attenti. Il Giappone può isolarsi culturalmente senza subire troppo gli effetti di un isolamento duraturo, perché l’aurea idealizzante occidentale sa espandersi rapidamente, sovrapponendosi a ciò che trova facendolo diventare finzione. E dato che il pensiero occidentale si pone sempre come dominante, a volte pure con arroganza, ecco che il Giappone non può che essere uno dei soggetti dell’opera delle finzioni,
un avamposto occidentale ricco di contenuti fruibili per l’abitante dell’altra parte della sfera, contenuti che così distorti arrivano confezionati al consumatore, che fissa estasiato attraverso schermi guerrieri e pirati fare cose occidentalmente straordinarie.
Ritorno dunque all’infanzia e ai suoi dolci ricordi, a Veceta che se drio cagar
, immaginandomelo seduto su uno di quei cessi spaziali che si trovano soltanto nei bagni giapponesi, la tavoletta che si alza da sola, la lucina violetta, il pulsante per attivare il rumore ambient di sottofondo, pronto a sprigionare tutta la propria devastante energia.
Aaaaaaaaaaaaaaggggggggg