In un articolo di qualche anno fa (“Attention and the cause of modern boredom”), lo storico ed esperto di relazioni internazionali Erik Ringmar scriveva:
“In the twenty-first century, only the bored are free”
(Nel ventunesimo secolo, soltanto chi si annoia è libero)
Si riferiva al caos di informazioni in cui annaspiamo ogni giorno
, consumando la preziosa risorsa della nostra attenzione. Secondo Ringmar, rifiutare di essere costantemente attenti e abbracciare la noia, peccando contro il primo comandamento del ventunesimo secolo
(“to pay attention”), sono possibili forme di resistenza; esortava a “spegnere i propri dispositivi; non stare dietro alle ultime news; non farsi imboccare dai feeds; non aggiornare il proprio status di Facebook.”
È incredibile in una vita quanti libri abbiamo la fortuna di avere fra le mani, e quanto poco, specialmente se spinti da altri, impariamo da essi: del resto luoghi in cui, ad esempio il liceo classico, si insegna la filosofia – cioè a pensare – sono diventati ormai obsoleti, di tanto in tanto si torna a proporne l’abolizione, mentre il punto sarebbe forse piuttosto di approfondire, oltre i propri, anche i classici delle altre tradizioni… Non siamo in effetti consci di quel che abbiamo per le mani
: quel che da noi sembra essere una semplice penna, infatti, altrove è una vera e propria arma (si veda Politica e governo cinese contemporanei [Dangdai Zhongguo Zhengfu yu Zhengzhi], 2015, cap. VII, “Il sistema di propaganda”:
“Il presente capitolo esamina la posizione del sistema di propaganda all’interno di quello del partito-governo, la sua struttura e modo di operazione. Insieme alla sicurezza pubblica (‘il manico del coltello’, daobazi), agli affari militari (‘la canna della pistola’, qiangganzi), il Partito controlla anche la propaganda (‘la canna della penna’, biganzi)”).
Tempo fa, a proposito, ricordo che introducevo un saggio sulla Cina contemporanea come segue:
“Tra le cose che più hanno colpito la mia attenzione durante un anno di vita a Pechino, sono stati i cartelli di una campagna propagandistica del governo cinese, chiamata ‘I nostri valori
’. Su di essi apparivano parole quali ‘armonia’, ‘integrità, ‘giustizia’, ‘amicizia’, ‘democrazia’, ‘civiltà’, ‘prosperità’.
.. e su ognuno vi era apposto un timbro rosso che recava incise le parole ‘il Sogno cinese’. Con questo motto, coniato dal presidente della Repubblica Popolare Cinese in carica dal 2013, Xi Jinping, la leadership cinese ha voluto significare l’inizio di una nuova epoca per la Cina.
Terminati i due trentenni della storia della Rpc, quello dell’era maoista, e quello caratterizzato da uno degli sviluppi economici e industriali più veloci della storia, inaugurato da Deng Xiaoping con il nome di ‘apertura e riforma’, la Cina è entrata nel pieno della sua modernità a fianco delle più potenti nazioni occidentali, dalle quali nei secoli scorsi subì diverse ‘umiliazioni’
.
Attraverso una complessa sintesi della esperienza che il Partito Comunista Cinese ha accumulato nella storia alla guida del paese, che unisce un’economia di mercato con un sistema mono-partitico di stampo socialista,
la Cina di oggi può dire di poter fare a meno di seguire i modelli di sviluppo e di governo di altri paesi, per seguire una propria strada che è riassumibile nella formula del
‘socialismo con caratteristiche cinesi’.
Questi ed altri argomenti sono stati ripresi nella presentazione del ‘Sogno cinese’, il sogno del ‘grande rinnovamento della nazione cinese’
che la Cina ha dall’inizio della sua modernità, periodo con il quale inizia la sua crisi. Il ‘Sogno cinese’ è un vero e proprio programma per la nazione, e tuttavia sarebbe semplicistico considerarlo solo come un rigetto dei valori e del modello di sviluppo occidentale, benché in parte lo sia.”
A distanza di una decina d’anni, la questione di fondo, pur nella sua ambiguità (come far stare insieme nella stessa ideologia nazionalismo e comunismo?)
, rimane sorprendentemente la medesima.
Nel mondo tutto è cambiato, tutti abbiamo fatto diverse capriole, e nonostante ovunque in Cina si senta parlare della
“nuova era”
in cui siamo entrati e di una“modernizzazione in stile cinese”
Xi Jinping è ancora in carica, al terzo mandato di probabilmente altri a venire. Suggerendomi che i tempi, qui come altrove, siano diversi da quel che siamo soliti pensare – che nel tentativo di aiutarli o capirli, i singoli si smarriscono in intricati passaggi di generazioni.
Un altro esempio: soltanto a me sembra che i tre anni di Covid da poco trascorsi, siano paragonabili a una settimana chiusi in una stanza senza finestre,
con pochi spiragli di obliata normalità – un’interruzione surreale del tempo? Abbiamo smesso di parlarne
, come fosse un incubo passato.
Ma ho l’impressione che proprio a partire dal Covid, la scacchiera dei tempi di ciascuno di noi sia come impazzita.
Tutti i nostri fallimenti o sogni mai realizzati hanno bussato alla porta di casa - dovunque abbiamo finito per trovarci – e si sono messi di fronte a noi, a fissarci per lunghi giorni.
Il tempo si è dilatato, stravolgendo i nostri obiettivi. Alla fine, riacquistata l’apparente sicurezza, specialmente per i più giovani è stato come realizzare la sorprendente insignificanza delle proprie passioni – e insieme la realtà, talvolta devastante, della loro necessità.
Il Covid ha messo alla prova
l’individuo – ci ha colpito nella parte più vulnerabile, il nostro ego. Ricordo le parole che Giampiero Neri ci ha lasciato prima di andarsene (in Utopie):
“Siamo forse gli animali più adattabili del pianeta”, tuttavia, “[n]oi abbiamo perso la fiducia. Il nostro orizzonte si è limitato alla nostra
fisicità
, siamo soli. Se usciremo da questa guerra non saremo più gli stessi.”
Per tornare alla Cina, le generazioni più giovani cominciano a capire che essa è tutto meno che un
Eldorado – molti di coloro che l’hanno creduto in passato hanno scoperto, se l’hanno fatto, semplicemente di essere stati in fuga da loro stessi e dal loro passato, o in cerca di una banalissima avventura turistica, o di banalissimi egoistici guadagni (fini che diremmo politici), andando incontro a una quotidianità tanto gradevole e spiacevole quanto quella verso cui sarebbero andati altrimenti – che, come nel gioco di parole nel titolo di un articolo di Simon Leys, si trattava di una “marcia sbagliata”: ma la Cina continentale ha bisogno di ben altro, se è ancora vero come diceva trent’anni fa
lo stesso sinologo, che
“il regime comunista cinese è di fatto morto – e lo è già da alcuni anni.”
Del resto tuttavia, come conclude Giovanni Andornino nel recente La Cina e noi:
“L’idea di voler cambiare gli altri a casa loro mi pare ispirata da un intento che, nella sua essenza, contiene un riflesso coloniale. Riferita alla Cina, […] mi pare particolarmente intempestiva. Se ce ne avanza lo spirito, e sarebbe auspicabile, impegniamoci piuttosto a cambiare noi stessi – come Occidente, come Europa, come Italia – così che si possa rappresentare un’esperienza coerente e attrattiva dinanzi alle coscienze di coloro che, in altre società, si trovano alla ricerca, nella loro autonomia, di percorsi credibili di emancipazione.”
Il prof. Andornino, in questo modo, riconosce in fondo lo stesso ingenuo e poetico motivo che ha spinto molti a venire fin quaggiù, all’esplorazione: cambiare se stessi
…
Ma il tempo, nella sua dimensione storica, cioè collettiva, sembra essere tornato a mettersi in mezzo. Si potrebbe fare ancora un passo indietro: pare perdersi, l’origine di questo nodo problematico – del nostro rapporto con il tempo – agli inizi della modernità. Cito da un saggio di Eugenio Garin:
“Una volta G. Boas ha osservato che fino ai tempi moderni ben pochi filosofi hanno preso sul serio il tempo. ‘Un mondo di idee statiche e perfette, un mondo di materia immobile, un mondo di cose in sé, un mondo di esseri eterni, un cielo abitato da anime spoglie di qualunque attributo terrestre e quindi temporale: ecco i regni in cui il filosofo ‛stanco del tempo' poteva rifugiarsi’
. L’irrompere del tempo in ogni aspetto della realtà, impose di sostituire il cambiamento all’immutabilità, l’ ‛eraclitismo‘ all’ ‛eleatismo‘. Di qui, non solo l’impetuosa crescita delle scienze storiche e l’imporsi della questione della conoscenza storica, ma la problematizzazione della storicità del reale
e della presa di coscienza del divenire
. Di qui il tentativo di determinare i ritmi e le leggi di tale divenire, cristallizzandolo nei sistemi totali delle filosofie della storia, tese a fissare una regolata scansione degli eventi nel progresso continuo e sicuro, interpretato a volte come un eterno ritorno circolare, e a volte, invece, come un’ascesa senza fratture entro forme categoriali ciclicamente ritornanti.”
L’attitudine classica era di riconoscere semplicemente la sua inarrestabilità
. Ricordo quel passaggio dai Detti di Confucio (9.17): “Il Maestro si trovava sulla riva di un fiume e disse: «Ogni cosa scorre così, senza fine, giorno e notte».”
Ancora Leys, il traduttore, commentava:
“È l’esatto equivalente di pánta reí (πάντά ῥεῖ). Confucio ed Eraclito erano contemporanei!
“
I commentatori tradizionali di solito interpretano questo brano in senso etico più che cosmologico. L’acqua che scorre è una metafora universale, usata per evocare non solo la costanza dell’impegno morale, ma anche il conforto psicologico ed emotivo: si veda, ad esempio, Samuel Johnson (Rasselas, principe d’Abissinia, il Saggiatore, Milano, 1983, cap. XXXV, p. 129):
«Il nostro animo, così come il nostro corpo, è soggetto a un mutare continuo; di ora in ora qualcosa si perde e qualcosa s’acquista … Non lasciare che la vita ristagni: diverrà essa una palude per mancanza di moto: riaffidati al flusso del mondo».”
Rilevo ad ogni modo che, forse, aveva ragione un mio vecchio dimenticato maestro, sui libri del quale ho passato, diciannovenne, clandestinamente
, un anno della mia vita – Milan Kundera, in uno dei suoi ultimi romanzi, Lentezza (1995)
“Nel nostro mondo, l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca”
a insinuare che essa non solo sia salutare, ma forse, anche, in qualche modo rivoluzionaria
.
Che ciascuno trovi, e aiuti il prossimo a trovare il proprio ritmo! Kundera, per altro, lo scrittore e poeta ceco che si distanziò dal comunismo e dalla relativa storia – a cui partecipò da giovane – del suo paese di origine con romanzi come Lo scherzo, La vita è altrove e Il libro del riso e dell’oblio…
Ma chi è il tempo? Sembra sorridere alle nostra lealtà tra uomini, i nostri voti di obbedienza; vorrei conoscerlo, andare a stringergli la mano – ma forse ne abbiamo pieni gli occhi (e Alexandre Vialatte riteneva che la buona letteratura fosse soltanto quella prodotta dal “tempo perso
”).
P.s.: Compiti per le vacanze, allora: procurarsi il Daodejing o Canone della Via e della Virtù del Laozi (magari nella recente versione a cura Attilio Andreini, per Einaudi) e/o precipitarsi a leggere le poesie di Hai Zi, nella versione di Francesco de Luca (Un uomo felice, Del Vecchio Editore, 2019).
STORIA
Per la prima volta le nostre labbra possiedono
acqua blu
riempiono orci di terracotta
e hanno una dozzina di stelle del sud
esche per il fuoco
prima dolorosa partenza
Oh anni!
Tu che vesti in nero
nei campi selvaggi hai scoperto la prima pianta
coi piedi in terra
senza poterli più togliere
quei fiori solitari
sono le labbra perdute della primavera
Anni, oh anni!
Prima di Cristo eravamo troppo giovani
Dopo Cristo siamo troppo anziani
nessuno ha visto quel sorriso splendido e innocente
allora alzo la mano, busso alla porta
i pittogrammi portati
sono sparsi a terra
Oh anni!
Anni
Una volta a casa
levo piano il cappello
e vicino a chi mi ama
chiudo gli occhi
un’antica statua siede in mezzo al muro
di lacrime s’imbeve il bronzo
Oh anni!(Hai Zi, 1984)